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Federico Fubini per “la Repubblica”
L’ufficio di Mario Draghi è al 40esimo piano della Grossmarkthalle di Francoforte, il nuovo grattacielo sul Meno della Banca centrale europea. La vista dalle pareti di cristallo sarà senz’altro notevole, ma pochi in questo momento hanno voglia di goderne se non come ospiti. Nessuno invidia al presidente della Bce il suo posto di lavoro, non ora: nei prossimi dieci giorni, Draghi deve prendere una decisione che può segnare la sua carriera, il futuro dell’euro e quello del suo stesso Paese di origine.
La scelta riguarda gli acquisti di titoli di Stato per 500 miliardi di euro che la Bce si prepara a varare il 22 gennaio. Il dubbio non riguarda l’opportunità di farlo, perché la caduta dei prezzi nella zona euro non lascia altra scelta per combattere la deflazione. Piuttosto, Draghi si trova a un bivio fra strade opposte per arrivare quegli interventi, e la differenza va oltre gli aspetti tecnici. Ciò che verrà votato fra dieci giorni alla Grossmarkthalle può decidere della natura dell’unione monetaria, delle istituzioni europee e l’avvenire del debito pubblico italiano.
Per Draghi, la scelta è fra due opzioni. La prima è intervenire in base alle regole di una banca centrale normale e mettere sul bilancio della Bce, man mano che compra, il rischio rappresentato da centinaia di miliardi di titoli di Stato di Paesi europei. Ciò significa che se (per ipotesi) la Finlandia, l’Italia o la Francia in futuro finissero insolventi, la Bce distribuirebbe le perdite pro-quota alle banche centrali nazionali sue azioniste, che a loro volta le passerebbero ai relativi governi. La Bundesbank ha il 30% delle quote di tutte le banche centrali nazionali nella Bce, dunque ai tedeschi spetterebbe il 30% delle perdite per un eventuale default di Italia, Francia o Finlandia.
bundesinnenminister wolfgang schaeuble propertyposter
L’altra strada invece fu già sperimentata dalla Bce nel 2010, quando acquistò dosi ridotte di bond privati. In questo caso la banca centrale compra titoli pubblici di tutti i Paesi, anche i più fragili come Italia o Portogallo. Poi però scarica il rischio sulle banche centrali (e alla fine sui contribuenti) per i titoli dei rispettivi Stati. Se l’Italia facesse default le perdite spetterebbero solo alla Banca d’Italia, e così via.
Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e il suo pari grado della Banca d’Olanda, Klaas Knot, detestano l’idea di dover condividere perdite causate da altri Paesi. Ma se il 22 gennaio Draghi proporrà al consiglio direttivo della Bce la seconda strada (rischio segregato dentro ciascun Paese), non si opporrebbero e offrirebbero persino un compromesso perché la Bce continui a comprare titoli anche dopo i primi 500 miliardi.
Draghi ha i voti in consiglio per mettere Knot e Weidmann in minoranza e prendere la prima strada. A quel punto però la Germania, primo azionista della Bce al 30% e Paese egemone, finirebbe per subire l’ennesima decisione fondamentale dell’Eurotower contro la sua volontà. Il ministero delle Finanze di Berlino e quasi tutta l’opinione pubblica pensano (a torto) che quegli acquisti siano illegali, una truffa ai danni dei tedeschi. Contro Draghi si scatenerebbe una campagna violentissima e un nuovo ricorso alla Corte costituzionale di Karlsruhe: un costo personale elevato per lui e una minaccia per la tenuta dell’istituzione che guida.
L’area euro è ai limiti dello stress istituzionale che è in grado di sopportare. Per questo Draghi studia anche l’opzione di scaricare il rischio dei titoli sui singoli Paesi, ognuno per sé. Anche qui però non mancherebbero gli effetti collaterali. Questa scelta segnalerebbe al mercato che la Bce per prima teme che esista davvero un rischio di insolvenza di alcuni Paesi, con l’Italia evidentemente in testa per il suo alto debito e la bassa crescita.
Quando la Grecia fece default, la Bce e i governi dichiararono solennemente che il suo caso sarebbe rimasto «unico», ma ora quell’impegno verrebbe implicitamente contraddetto e ritirato. Gli investitori potrebbero tenerne conto e chiedere tassi più alti per comprare titoli di Roma, a maggior ragione perché ora sanno che sarebbe il Tesoro a dover ricapitalizzare la Banca d’Italia in caso di insolvenza: non c’è alcuna rete esterna.
Non solo. Se scegliesse la seconda strada, Draghi potrebbe anche dare l’impressione di rinunciare al suo « whatever it takes » del 2012, la celebre promessa di fare «qualunque cosa serva», anche le mosse più radicali, che allora salvò l’euro e l’Italia dal fallimento. Alcuni leggerebbero in quella scelta un messaggio di fondo: l’unica istituzione davvero unitaria d’Europa, l’ultima in grado di lavorare per il bene comune dell’area, non è più tale fino in fondo perché frammenta e segrega i rischi nei singoli Paesi. Ad alcuni l’euro inizierebbe a sembrare non una moneta unica, ma un sistema di cambi fissi in attesa di disgregazione.
Non è detto che vada così. Se l’Europa e l’Italia riprendono a crescere e a ridurre il debito, fra qualche anno pochi si ricorderanno ancora di questi problemi. Per ora però il panorama dal 40esimo piano della Grossmarkthalle è avvolto di nubi da ogni lato.
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