DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Eugenio Occorsio per “Affari & Finanza - la Repubblica”
La parola d’ordine per tutti è: occhio ai social network. Perché da lì, analizzandoli con occhio clinico e con metodi da analisi scientifica, si traggono tendenze, mode, gusti e cambiamenti sull’universo mondo, giovanile e non. Poi però arriva la sfida: essere i primi a tradurre in capi d’abbigliamento e accessori questi umori.
LA BORSA DI ZARA CON LA SVASTICA
Infine, lanciarli sul mercato su scala mondiale, il più capillarmente possibile ma soprattutto rapidamente. Non a caso il neologismo che identifica più precisamente il settore non è “casual chic”, “private label”, “low cost branding” o “cheap textile”, che pure sono tutti usati, bensì “fast fashion”. Fast, cioè veloce, molto
più che non i marchi più blasonati, intanto ovviamente più costosi ma poi legati al ciclo delle due sfilate l’anno, primavera- estate quando fa freddo e autunno- inverno quando fa caldo (per dare modo alle case di smaltire gli ordini, ma intanto i mesi passano e magari i gusti del pubblico sono già cambiati). Invece qui niente di tutto questo, nessuna ritualità, neanche a dire il vero nessun disegno troppo raffinato e costoso: si caricano in fretta le linee di montaggio e poi si invade il mercato.
Il fashion è “fast” in tutto: se dopo qualche giorno o settimana si capisce che quella linea non ha incontrato i gusti del pubblico malgrado tutti i sondaggi precedenti, viene ritirata e avanti il prossimo. E’ il mondo di cinque giganti: l’americana Gap, la spagnola Zara, la svedese H&M, la giapponese Uniqlo e la britannica Primark che è l’ultima arrivata e sta per aprire di slancio i primi tre negozi in Italia, a Venezia, Milano e Roma entro fine anno. Sono cinque colossi industriali che riescono a vendere a poco prezzo (non stracciato) e hanno conquistato una specifica credibilità di marchio.
Si contendono senza esclusione di colpi i posti sul podio, e spesso se li scambiano. Ora è il momento di Gap ad essere in difficoltà: è la pioniera (cominciarono nel 1969 a San Francisco Donald e Doris Fisher, marito e moglie, a vendere magliette con il nuovo marchio mischiate a jeans Levis e scarpe Converse All Star) ma ora è incappata in una crisi di creatività: «Abbiamo fallito del tutto l’approccio sui millennials (i nati dopo il 2000, ndr)», ha tuonato il nuovo Ceo, Arthur Peck, che ha preso il posto di Glenn Murphy, che pure aveva portato le vendite a raddoppiarsi fra il 2011 e il 2013 ma si è elegantemente defilato quando ha capito che le cose si mettevano male.
Mescolando questo fattore con il dollaro forte, aggravato dal fatto che i prezzi degli articoli sono saliti di quel minimo (rispetto ai quattro contendenti) sufficiente a metterli a volte fuori mercato, ecco il risultato: 175 negozi in America saranno chiusi, di cui 140 quest’anno, riducendo il totale a 500. Per fortuna altri marchi della famiglia reggono: Old Navy, non a caso il più low cost di tutti, è passato l’anno scorso da 6 a 7 miliardi di vendite, più dello stesso marchio Gap. Il gruppo, che ha chiuso il 2014 con 16,4 miliardi di dollari di fatturato complessivo ma prevede una contrazione per il 2015, ha perso la leadership a favore dei più aggressivi Zara e H&M.
Anche quest’ultima peraltro ha le sue preoccupazioni per il fattore valuta: l’azienda svedese importa materie prime e semilavorati dall’America ma soprattutto dai Paesi del sud est asiatico pagandoli in dollari. Come per l’hi-tech, gli analisti finanziari sono attentissimi a cogliere il minimo scostamento rispetto alle previsioni e a ricavarne previsioni che mandano il titolo sulle montagne russe: il gruppo svedese ha sì riportato vendite in aumento da 38 a 46 miliardi di corone nel primo trimestre (4 miliardi di euro), ma l’incremento del 21% è stato giudicato deludente rispetto al 28% dell’arcirivale Zara, che viaggia sui 4,3 miliardi di euro di fatturato a trimestre e detiene attualmente il primo posto (di misura) fra i cinque grandi del fast fashion.
I profitti pre-tasse di H&M sono saliti dell’11% fino a 6,45 miliardi di corone ma gli analisti prevedevano 6,49. E il margine lordo si è indebolito al 59,4 dal 60,8%. Inezie? Macché, è stato sufficiente perché in un gruppo da 3500 negozi in 55 Paesi e 132mila dipendenti di cui 16mila assunti nel 2014, si diffondesse il nervosismo. Soprattutto perché il volume di investimenti intrapreso è tale (l’anno scorso ha aperto lo smagliante e gigantesco magazzino sulla Fifth Avenue a New York) che l’azienda svedese - come le altre - non può permettersi il benché minimo calo di mercato.
Problemi di diversa natura li ha Uniqlo, glorioso gruppo nipponico con 812 negozi in Giappone (99 a Tokyo) e 300 in altri 14 Paesi (non ancora in Italia) alle prese con un duro sciopero intrapreso dai dipendenti delle fabbriche tessili della provincia cinese del Guangdong dove buona parte delle produzioni viene realizzata. Chiedono migliori condizioni di lavoro e salari più dignitosi: 500 operai sono asserragliati notte e giorno nella fabbrica della Shenzen Artigas Clothing & Leather e ne bloccano il funzionamento.
Paradossalmente Uniqlo è stata la settimana scorsa la prima azienda giapponese, con la trading house Itochu e il gruppo fotografico Ricoh, ad introdurre regole per una “umanizzazione” del lavoro, dall’abbreviazione dell’orario (introducendo turni anche di 4 ore e il divieto di lavorare dopo le 8 di sera) all’obbligo di prendersi almeno cinque (!) giorni di vacanza l’anno.
Per Uniqlo la vertenza è un ostacolo non da poco nel momento in cui sta spingendo per l’espansione internazionale con un nuovo slancio di crescita: fondato nel 1949, ha adottato ufficialmente nel 1997 il modello Gap, il cosiddetto Spa (Specialty Private Apparel) che prevede di prodursi da sé i capi e venderli nei propri negozi (tutt’al più in franchising), ma solo nel 2005 con il passaggio nel potente gruppo Fast Retailing si è lanciato alla conquista del mondo.
Chi il mondo l’ha già conquistato è certamente Zara, 6.700 negozi in 88 Paesi, esponente di un “fashion” così “fast” che si vanta di riuscire a far passare solo una settimana dal momento in cui il capo viene ideato a quello in cui è negli scaffali nel magazzino, contro i sei mesi di media per la moda meno “veloce”. L’azienda rende noto anche che sono 12mila i capi lanciati ogni anno, ognuno con il suo design, e non si stanca di riecheggiare le parole di Daniel Piette, manager di Louis Vuitton: «È il più innovativo e devastante fenomeno del nostro ambiente».
Zara va talmente bene che il suo fondatore (nel 1975) Amancio Ortega, l’ex camiciaio galiziano che è tuttora azionista di maggioranza con la sua finanziaria Inditex, ha conquistato pochi giorni sulle colonne di Forbes fa la piazza di secondo uomo più ricco del mondo dopo Warren Buffett, con una fortuna personale di 73,2 miliardi di dollari. Se Zara è il primo, l’ultimo di questa top five, ma crescerà in fretta, è Primark, nome nuovo che però sarà presto popolare anche in Italia dove aprirà in autunno i primi tre magazzini.
Fondato nel 1969 a Dublino, inizialmente con il nome Penneys, allargatosi via via a tutto il Regno Unito (dove oggi conta 165 negozi su 270 totali), il gruppo si è lanciato con decisione nel settore solo nel 2005, quando ha aperto a Madrid il primo magazzino all’estero. Poi si è allargato a una decina di Paesi europei, ha raggiunto il ragguardevole fatturato di 4 miliardi di sterline ed eccolo qui ad affollare il vibrante mercato del fast fashion anche in Italia.
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