DAGOREPORT – NEL NOME DEL FIGLIUOLO: MELONI IMPONE IL GENERALE ALLA VICEDIREZIONE DELL’AISE.…
Maurizio Belpietro per la Verità
Il giorno dopo che la malattia lo ha costretto a uscire di scena, Sergio Marchionne è stato beatificato a mezzo stampa. Colui che fino a ieri era criticato per aver decentrato all' estero e produzioni chiudendo Termini Imerese, aver spostato la sede legale (e dunque fiscale) fuori dall' Italia, aver imposto un contratto aziendale disconoscendo quello nazionale, aver sbagliato molte previsioni, all' improvviso è diventato un manager straordinario. Anzi: il Manager.
La realtà è che Sergio Marchionne non era un manager, ma un controller, cioè uno che avrebbe dovuto verificare il lavoro di altri manager. Per una serie di circostanze straordinarie poi fu messo alla guida di un gruppo che non era fallito, ma la cui azienda principale, Fiat auto, se non rimessa in carreggiata avrebbe fatto fallire sotto una montagna di debiti anche tutto il resto.
Marchionne si trovò tra le mani il destino di una multinazionale tascabile che da tempo aveva innestato la retromarcia. Una fabbrica di automobili che non aveva automobili nuove in produzione e nemmeno le aveva progettate. Così, senza sapere nulla o quasi di auto e poco e niente della concorrenza si mise al volante. Dalla sua però aveva alcune carte da giocare. Conosceva meglio di altri i numeri ed era abituato a scovare tra le pieghe dei bilanci i problemi.
Un vantaggio che sfruttò soprattutto quando dovette negoziare l' uscita di scena di Gm dal capitale della Fiat, una trattativa che egli concluse portandosi a casa un pacco di miliardi mentre avrebbe dovuto essere lui a versarli. L' astuzia sui conti gli consentì anche di sfruttare a proprio favore, e a favore degli azionisti, la crisi della Chrysler. I tedeschi della Daimler avevano speso un mucchio di soldi nel tentativo di farla diventare un moderno gruppo automobilistico e non un carrozzone di marchi più o meno fuori mercato. Ma alla fine, dopo dieci anni, furono costretti a gettare la spugna, travolti dai risultati negativi.
La fortuna, per Marchionne, volle che in quel momento alla Casa Bianca fosse appena arrivato Barack Obama e che il neo presidente non potesse cominciare il mandato assistendo impotente alla chiusura delle fabbriche automobilistiche del gruppo. Obama non aveva il problema degli aiuti di stato che avrebbe avuto un qualsiasi politico europeo, costretto a rispettare le assurde regole di Bruxelles. No, il presidente Usa mise mano al portafogli, sperando che qualcuno si facesse avanti. E un uomo scaltro, con un' azienda che faceva fatica a trovare la strada per uscire dalla crisi, capì che quella poteva essere un' opportunità. Ha scritto bene Marco Cobianchi nel libro in cui ha analizzato la strategia di Marchionne (American Dream): non è la Fiat che ha comprato la Chrysler, ma Obama che ha comprato la Fiat.
Con i soldi americani (e anche la tecnologia che nella Chrysler avevano messo i tedeschi), Marchionne ha fatto il miracolo. Tuttavia, anche se ha guidato per 14 anni un gruppo automobilistico, l' uomo che oggi giace in un letto d' ospedale a Zurigo non è mai stato un manager dell' automobile. Prova ne sia che ha fatto e disfatto piani industriali (otto in totale), senza azzeccarne mai neanche uno. Marchionne è stato un grande funambolo, un uomo che ha giocato con i soldi, le banche, le relazioni. Ha scomposto e ricomposto il gruppo, quotando ciò che già era di proprietà della Fiat e moltiplicandone il valore.
Riccardo Ruggeri, che la Fiat la conosce come le sue tasche essendone stato un manager tra i più importanti, ha scritto in un Cameo che l' ad di Fca è il più grande deal maker del mondo dell' automobile.
Che cos' è un deal maker? Cedo la parola allo stesso Ruggeri, che per spiegarlo ha usato un paragone artistico. «Se un manager è un pittore, perché aggiunge materiale sulla tela bianca, il deal maker è uno scultore, in quanto crea un' opera d' arte togliendo materiale da un blocco di marmo».
Marchionne ha via via scorporato dal blocco Fiat il materiale della Case New Holland e dell' Iveco (Cnh global), e della Ferrari e ora si apprestava a fare lo stesso con la Marelli e con Comau. Un gioco di prestigio che ha creato valore per gli azionisti, facendo crescere con questo spezzatino le quotazioni di oltre sei volte. Per dirla con Ruggeri: uno scultore sommo.
Ma a fronte di questa straordinaria capacità creativa esiste il rovescio della medaglia.
Ossia una Fca che comunque resta piccola rispetto ai concorrenti, che non ha macchine elettriche e neppure ibride e dunque nel futuro non potrà che arrivare fra gli ultimi. Il gruppo vende quasi cinque milioni di automobili in un mercato dove i concorrenti ne vendono 12 milioni, ma di quei cinque milioni di pezzi la parte più profittevole è quella con il marchio Jeep, perché lì i soldi di Obama sono serviti. In Italia, al contrario, i profitti sono scarsi e gli stabilimenti poco strategici.
Probabilmente il grande giocoliere aveva in mente, una volta fatto crescere il valore, di vendere tutto, magari ai cinesi. E però l' uscita di scena di Obama e l' arrivo di Trump ha cambiato tutto. Il nuovo presidente, colui che mette i dazi e fa la guerra commerciale alla Cina e anche all' Europa, mai accetterebbe che un pezzo del mercato automobilistico americano finisse in mano a qualcuno eterodiretto da Pechino.
Marchionne forse pensava di rivolgersi ai sudcoreani, più graditi da Trump, e per questo si è fatto il nome della Hyundai. Lo scultore sommo probabilmente si sarebbe inventato un azzardo dei suoi, ma purtroppo la malattia è arrivata prima e il futuro del gruppo è passato di mano. Toccherà a un inglese trovare la soluzione al rebus e dovrà trovarla in fretta, perché se c' è una qualità che ha aiutato il grande giocatore di poker a non perdere mai una mano è stata la velocità.
Fra le tante banalità di questi giorni ho letto che Marchionne era un globalista, mentre secondo altri era un neo protezionista. Qualche sindacalista ha scritto che era amico dei lavoratori e nemico dell' Italia corporativa, mentre altri lo hanno accusato di aver salvato gli Agnelli, ma non gli operai, ricoprendolo di insulti. Tuttavia c' è chi gli vorrebbe costruire un monumento. Non so se la statua sia la cosa migliore per ricordarlo. Forse la cosa migliore sarebbe capirlo e, soprattutto, impararne la lezione. Nelle aziende la flessibilità non è solo quella che si applica ai dipendenti, ma soprattutto quella che mettono in campo i manager che si adattano al futuro. Che non è né bello né roseo, è solo in continua evoluzione.
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