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Marco Franchi per Il Fatto
La riunione del cda Telecom Italia di giovedì scorso ha confermato che il potere di Mediobanca sul capitalismo italiano è in declino. Renato Pagliaro, presidente della banca d'affari fondata da Enrico Cuccia, è stato di fatto messo in minoranza da consiglieri in gran parte designati da lui: il presidente di Telecom Franco Bernabè è riuscito a far passare il dimezzamento del dividendo, cioè a far prevalere gli interessi dell'azienda su quelli dell'azionista dominante. E Mediobanca non è riuscita a fare fino in fondo i suoi interessi a danno di quelli generali.
UNA SVOLTA? Sì e no. Perché ormai da tempo Pagliaro e Alberto Nagel, i due dioscuri di piazzatta Cuccia, incassano una sconfitta dietro l'altra. Telecom, ma anche Monte dei Paschi, Unipol-Fonsai , Generali. Tutte le grane portano a Mediobanca. E l'antica stanza di compensazione della finanza italiana non ha ancora finito di soffrire. Con l'impatto devastante della crisi, che trasforma gli attori di sistema in grandi creditori a rischio rimborsi, il capitalismo di relazione si sta rivelando un boomerang per il principale crocevia di interessi e di potere.
I primi scricchiolii sono arrivati con la crisi di Fondiaria-Sai che ha messo in fortissimo allarme i vertici della banca per via del prestito da un miliardo concesso alla compagnia della famiglia Ligresti. Certo la fusione con Unipol, in cui Mediobanca ha fatto da regista, ha garantito il rientro dall'esposizione. Tradotto: ha salvato i quattrini. Ma non ha evitato all'amministratore delegato Nagel di finire indagato dalla Procura di Milano per un presunto accordo segreto sulla buonuscita milionaria promessa ai Ligresti.
"La vera storia e ricostruzione dei fatti e dei soggetti che hanno inciso sulla gestione di Fonsai ancora deve essere scritta", ha detto qualche giorno fa il patron Salvatore Ligresti dopo l'azione di responsabilità decisa dalla compagnia nei confronti suoi e dei tre figli. Un messaggio che sembrava rivolto proprio al vertice di Piazzetta Cuccia. Segno che la telenovela delle nozze fra le due compagnie può riservare ancora dei colpi di scena.
Ma in queste settimane i nervi di Mediobanca sono scossi dalle notizie provenienti da Siena. Il terremoto giudiziario in casa del Monte dei Paschi viene seguito con estrema attenzione dai manager dell'istituto milanese, che nel 2011 ha messo sul piatto 60 milioni per partecipare, con un pool di altre dieci banche capitanato da Jp Morgan, al prestito in favore della Fondazione Mps.
L'ente senese si è infatti indebitato per partecipare agli aumenti di capitale mantenendo il controllo sul Monte, di cui ha oggi poco poco più del 33%. Le azioni sono però in pegno allo stesso gruppo di banche creditrici, tra le quali Mediobanca. E la Fondazione non ha più niente da offrire in garanzia, tanto che sta per vendere un altro 10 per cento della sua partecipazione per fare contente le 11 banche che temono di rimanere col cerino in mano, cioè con il pegno di azioni che possono azzerarsi in caso di nazionalizzazione del Montepaschi.
NON à DUNQUE passato inosservato lo studio Mediobanca diffuso il 6 febbraio che analizza le opzioni strategiche delle big del credito francesi, compreso Bnp Paribas che in Italia opera attraverso la Bnl. Ecco il teorema: la Banca Nazionale del Lavoro al momento è troppo piccola per avere un impatto significativo sui profitti o sulle perdite della casa madre ma al contempo è anche grande abbastanza per incidere sulla qualità del profilo finanziario dell'istituto. Bnp, per Mediobanca, è dunque a un bivio: o vendere Bnl o crescere "per linee esterne" che, in questo momento, significa «comprare Mps».
Il teorema è parso ad alcuni osservatori come il tentativo di spingere verso una soluzione di sistema, rispettando una vecchia tradizione italiana secondo cui è il sistema bancario che deve salvare se stesso. "Il ruolo di Mediobanca - spiega un banchiere - è cambiato rispetto al passato, prima rimetteva a posto i cocci e gestiva i problemi degli altri che ora sono diventati i suoi. Prima al massimo dava l'esempio, oggi non più. Salvando gli altri, cerca di salvare se stessa".
Oggi la cosiddetta Galassia non basta più, anzi a volte diventa impegnativa, costosa, forse troppo. "Non è un caso - fa notare lo stesso banchiere - che quando Generali ha fatto capire che bisognava rafforzare il capitale e Mediobanca avrebbe dovuto metterci dei soldi, Pagliaro e Nagel si sono si sono opposti e l'aumento di capitale della compagnia ancora non si è fatto". Proprio come in Telecom Italia. Solo che il Leone di Trieste è stato per anni considerato il braccio armato di Piazzetta Cuccia.
IL NUOVO amministratore delegato Mario Greco, che dall'agosto scorso guida le Generali, vuole rilanciare la redditività del gruppo sciogliendo anche gli incroci azionari che lo legano incestuosamente alle roccaforti del capitalismo: Pirelli, Telecom, Rcs e la stessa Mediobanca. Che con il suo 13,46% è il principale azionista della compagnia e sta diventando, in tempi di crisi, per Generali come per Telecom, un imbarazzante questuante di dividendi. Quelli che servono a Pagliaro e Nagel, nobiltà decadute, a far quadrare i conti di sistema.
ALBERTO NAGEL E SALVATORE LIGRESTIRENATO PAGLIARO E ALBERTO NAGEL DAL CORRIERE jpegNAGEL E SIGNORA MARIO MONTI ALBERTO NAGEL Nagel e Pelliccioli ALBERTO NAGEL GIANNI LETTA_1alberto nagel renato pagliaro LaStampaMARIO GRECO Franco Bernabè
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