CHI PIL E CHI DEPIL - IL PRODOTTO INTERNO USA È CRESCIUTO, NEL 2013, DEL 2,5% MENTRE L’EUROZONA STENTA A RIPRENDERSI - LA DECISIONE DI S&P DI TOGLIERE LA TRIPLA A ALL’UE DIMOSTRA LO SCETTICISMO USA PER LA TENUTA DI EUROLANDIA

1 - STATI UNITI PIÙ AGILI: PERCHÉ IL LORO MODELLO VINCE LA SFIDA CON L'UE
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"

«Il Pil Usa che cresce del 4,1 per cento, un ritmo nemmeno pensabile sulle coste europee dell'Atlantico: l'America vola mentre la Ue rimane impantanata». «Macché: i nuovi numeri dell'economia statunitense sono falsati. Attenti: basarsi sui dati del Pil del terzo trimestre 2013 per tingere di rosa l'orizzonte dell'economia Usa è come guidare un'auto con gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore».

A poche ore dall'annuncio della seconda revisione al rialzo del valore del reddito prodotto negli Stati Uniti nel periodo che va da luglio a settembre, gli scettici sono già all'offensiva. Ma stavolta hanno torto: effettivamente la prima revisione del Pil del terzo trimestre, quella di due settimane fa, era in buona parte basata su un anomalo accumulo delle scorte di magazzino. Anomalo e inesorabilmente destinato a deprimere i dati del quarto trimestre dopo aver gonfiato quelli del periodo precedente.

Questa anomalia rimane ancora dopo la seconda revisione: il dato comunicato ieri mattina dal governo Usa - l'incremento del reddito nazionale è stato portato dal 3,6 al 4,1 per cento, il numero più elevato degli ultimi due anni - continua a nascondere un 1,7 che è legato all'accumulo anomalo di giacenze invendute nei magazzini.

Ma questo si sapeva già (e il Corriere ne aveva riferito all'inizio di dicembre). L'ulteriore incremento del reddito «fotografato» dalle nuove rilevazioni è, invece, tutto legato a fattori che fanno ben sperare per un vero consolidamento della ripresa dopo un lungo periodo di stagnazione: aumento degli investimenti in nuovi impianti e nel settore immobiliare, più export e incremento dei consumi delle famiglie.

Quest'ultima voce è cresciuta del 2,5 per cento: niente di spettacolare, certo, ma è il capitolo dal quale dipendono oltre i due terzi dell'economia americana e ha fatto registrare un'intonazione notevolmente positiva nonostante l'azione frenante dovuta prima ai tagli del bilancio federale e dell'aumento delle tasse, e poi alla semiparalisi del governo che ha subito per 16 giorni gli effetti del cosiddetto «shutdown».

«Anche eliminando l'effetto anomalo delle scorte e dando per scontato che negli ultimi tre mesi dell'anno l'economia non crescerà più del 2-2,1 per cento», nota Ted Wieseman, analista di Morgan Stanley, «il 2013 registrerà un aumento medio del Pil del 2,5 per cento». Un miglioramento progressivo rispetto al 2% del 2012 e all'1,5% dell'anno precedente, e ciò nonostante che i tagli automatici della spesa federale (il cosiddetto «sequester»), quelli di città e Stati in crisi fiscale e gli aumenti delle tasse abbiano sottratto all'economia un volume di risorse «pari all'1,75 per cento del Pil».

Insomma segnali di vitalità reale che giustificano un maggiore ottimismo circa il consolidamento della ripresa con una crescita che l'anno prossimo potrebbe stabilizzarsi attorno al 3 per cento, mentre il tasso di disoccupazione, sceso negli ultimi mesi dal 7,8 al 7 per cento, potrebbe calare ancora.

Nessuna svolta epocale, sia chiaro: il mercato del lavoro rimane depresso, la sacca dei disoccupati che si è creata durante la «grande recessione» del 2008-2009 non si è ancora riassorbita, mentre la diminuzione percentuale dei senza lavoro nasconde, in parte, la sfiducia di chi ha smesso di cercare un impiego.

Ma, se confrontata con la rigidità e l'immobilismo europeo, quella dell'America è l'immagine della salute. Un Paese a due facce, certo: da un lato infrastrutture pubbliche da terzo mondo, dalla rete elettrica alle ferrovie antiquate ai ponti arrugginiti. Nulla che rassomigli anche lontanamente a un Tgv o a un Frecciarossa. Dall'altra, però, un sistema industriale molto flessibile e di nuovo competitivo tanto sul piano delle tecnologie che su quello dei costi, che riguadagna rapidamente terreno, mentre le banche risanate e stabilizzate tornano a sostenere l'economia reale.

Certo, anche negli Usa si sente il peso del «new normal» nel quale, dopo la crisi del 2008, sono precipitate le economie occidentali, alle prese con gli effetti della globalizzazione e dell'automazione: meccanismi che continuano a costare cari a molti lavoratori e che, in assenza di interventi correttivi, accentuano la polarizzazione nella distribuzione del reddito e, quindi, le tensioni sociali. Lo sa bene lo stesso Obama la cui popolarità continua a sprofondare (anche a causa della pessima gestione della riforma sanitaria) nonostante l'evidente miglioramento dell'economia.

Ieri il presidente è arrivato di ottimo umore alla sua conferenza stampa di fine anno, forte dei freschissimi e incoraggianti dati del Pil. Ma i giornalisti l'hanno gelato fin dalla prima domanda: «La sua popolarità è ai minimi, non pensa che il 2013 sia stato il peggiore dei suoi cinque anni da presidente?». Chissà come andrà ai suoi colleghi dei governi europei.

2 - L'AMERICA CRESCE, S&P BOCCIA L'UE INSORGE L'EUROPA: "È UN ERRORE"
Andrea Bonanni per "la Repubblica"

«Questa notizia non ci rovinerà il Natale», commenta filosoficamente il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy. Ma certo la decisione dell'agenzia di rating americana Standard & Poor's di togliere la tripla A all'Unione europea è arrivata ieri a rovinare l'autocompiacimento di un vertice Ue intento a celebrare il varo del meccanismo unico di risoluzione: seconda e decisiva tappa dell'Unione bancaria.

Le motivazioni e la tempistica della mossa di S&P lasciano pochi dubbi sul fatto che si sia trattato di un segnale politico. E come tale è stato inteso dai capi di governo. Tanto più che il declassamento è arrivato nella seconda e ultima giornata del vertice europeo, ed è coinciso con l'annuncio che l'economia Usa sta crescendo ad un ritmo addirittura superiore al previsto e comunque molto più rapidamente di quella europea. Nel terzo trimestre del 2013 il Pil degli Stati Uniti ha fatto registrare un tasso annuo di incremento del 4,1%, superiore anche ad una precedente stima che era del 3,6.

Mentre negli Usa la ripresa si va consolidando sempre di più, l'Europa è ancora alle prese con gli strascichi della crisi. «Il downgrade di oggi è un segnale che non va sottovalutato: la crisi non è ancora terminata. La transizione non è ancora finita e l'Europa e l'euro restano sotto osservazione», ha commentato Enrico Letta secondo cui, comunque, il provvedimento è «ingiustificato ».

In realtà la decisione di S&P ha poco senso economico, visto che l'Unione europea non ha debiti, non ha deficit, ha un bilancio interamente alimentato dagli stati membri e opera sui mercati finanziari in misura talmente limitata da non presentare fattori di rischio che meritino di essere valutati.

Ma la bacchettata impartita dall'agenzia di rating americana viene motivata con due ordini di argomenti. Il primo è che il declassamento dell'Unione riflette il continuo peggioramento del rating degli stati membri. Negli ultimi tempi Olanda, Francia, Italia, Spagna, Malta, Cipro e Slovenia hanno subito un downgrading e dal gennaio del 2012 il rating medio degli stati membri è passato da AA+ ad AA.

Più preoccupanti risultano invece le argomentazioni politiche addotte da Standard & Poor's, che sono di tre tipi: «l'indebolimento della coesione» tra gli Stati membri, «il calo di supporto» all'idea dell'integrazione europea, tema in cui si inserisce anche l'annunciato referendum britannico sulla permanenza nell'Ue, e infine le dure polemiche tra governi che hanno accompagnato la definizione del nuovo bilancio pluriennale dell'Unione.

Sono argomentazioni che, alla vigilia di elezioni europee in cui si prevede un forte successo dei partiti anti-Ue, dovrebbero far riflettere i governi. Non a caso nel
Consiglio europeo, dopo aver accettato un compromesso al ribasso sul meccanismo di risoluzione bancaria, i Ventotto hanno anche rinviato ad ottobre prossimo ogni decisione sugli «accordi contrattuali », che dovrebbero vincolare volontariamente gli Stati membri ad una serie di riforme strutturali per migliorarne la competitività. La questione avrebbe dovuto essere decisa in questo summit, poi era stata rinviata e infine è stata spostata ad ottobre, sotto presidenza italiana.

Naturalmente il declassamento di S&P è stato accolto con irritazione dai leader europei. «Non cambia nulla», ha commentato il presidente francese Hollande. E il premier belga Di Rupo ha ricordato i molti errori dell'agenzia di rating, che non aveva previsto l'esplosione della crisi finanziaria. Rehn e Barroso hanno respinto le critiche ricordando che la Ue «non ha debiti e non ha deficit».

Ancora più sprezzante un altissimo dirigente dell'Unione: «S&P aveva previsto il collasso dell'euro e l'uscita della Grecia dall'Unione monetaria. Invece di giustificare questi errori clamorosi, ora si mette a declassare il nostro rating. Sarà un altro errore di cui non verrà chiamata a rendere conto».

 

 

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