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Luigi Ippolito per “La Lettura – Corriere della Sera”
L'ufficio è morto, il lavoro tradizionale pure: la pandemia ha sradicato tradizioni consolidate e ha imposto un modello «ibrido» che è qui per restare. Un trend epocale sviscerato nell'ultimo libro di Julia Hobsbawm, figlia del celebre storico: lei da anni si occupa, come studiosa e consulente, dei modelli di interazione sociale e adesso, con The Nowhere Office («L'ufficio da nessuna parte»), traccia le linee guida - come dice il sottotitolo del volume - «per reinventare il lavoro e il posto di lavoro del futuro».
Nel libro sostiene che la pandemia ha solo portato alla luce tendenze che erano latenti da tempo.
«Ho osservato aziende e organizzazioni da vicino per oltre trent'anni e ho concluso che il mondo del lavoro era disfunzionale e che aveva bisogno di cambiare. Quando ho cominciato a scriverne, nel 2017, era nel contesto del "sovraccarico": e ho identificato qualcosa che ho chiamato "salute sociale". Già prima della pandemia l'Organizzazione mondiale della sanità aveva dichiarato che lo stress è la maggiore epidemia del nostro tempo.
Non sono mai stata convinta che il lavoro funzionasse bene: ma era mascherato dal fatto che siamo sempre connessi, sempre occupati: le classi professionali erano intrappolate in una corsa al successo, una sorta di patto faustiano».
Finché non è arrivato il Covid a sconvolgere tutto.
«La pandemia è stata radicale, ha fermato tutto dall'oggi al domani: e tutte queste bolle di scontento che avevo rintracciato fin da trent'anni sono venute alla superficie. La pandemia non è la causa, l'ha solo fatto emergere: se proprio vogliamo puntualizzare, è internet che ha ucciso l'ufficio, non la pandemia».
Anche questa è una tendenza che arriva da lontano.
«L'ultima fase, che precede il Nowhere Office, ha avuto luogo fra il 2007 e il 2019: la chiamo l'era del co-working, segnata dall'arrivo di internet. Se guardiamo all'insoddisfazione di oggi, alle cosiddette "grandi dimissioni", quel gusto per la mobilità e la libertà è cominciato nel 2007 con l'arrivo di internet, Airbnb, Facebook, Twitter... del telefonino».
Come possiamo definire il Nowhere Office, l'ufficio che non c'è?
«Il Nowhere Office è una fase del lavoro: non è un argomento contro l'ufficio, è una fase che non è vicina a cosa c'era prima ma neppure a dove si arriverà. È anche un anagramma fra Now e Here (ora e qui), è una espressione della fase storica del lavoro che è cominciata con la pandemia e che durerà almeno fino al 2025, quando saremo da qualche parte con maggiore chiarezza.
È una transizione, è un punto liminale, più uno stato di fatto che una polemica per eliminare l'ufficio: è un'osservazione di un momento nel tempo. Stiamo assistendo a un massiccio cambiamento culturale, perché c'è stato un unico punto di svolta in cui sono confluite cultura, generazione, tecnologia, crisi pandemica».
Ma nel passaggio al lavoro da remoto, al lavoro ibrido, non si rischia che la vita sia colonizzata dal tempo lavorativo?
«Il lavoro ibrido non è una soluzione perfetta. Ciò che sostengo è che le pratiche globalizzate del mondo del lavoro devono essere rimpiazzate da qualcosa che varia con il posto di lavoro, con la città, con l'organizzazione: è un rompicapo.
A partire dagli anni del co-working, siamo tutti connessi dalle tecnologie con la nostra vita interiore, non solo con la nostra vita lavorativa: è ciò che chiamo il blended self, il sé mescolato. Non tutti lo possono fare: ci sarà molto risentimento sul posto di lavoro, perché ci saranno persone che dovranno essere in ufficio e altre che potranno scegliere di non esserci».
Infatti il lavoro ibrido non rischia di accrescere le divisioni sociali fra lavoratori manuali e intellettuali?
«Ne crea di nuove: nuove ineguaglianze, fra chi ha e chi non ha accesso all'ibrido».
C'è anche il problema dei giovani, che con il lavoro da remoto hanno meno possibilità di apprendere sul campo e crescere.
«Nessuno suggerisce la fine dell'ufficio: abbiamo bisogno delle persone, che tu sia giovane o anziano. Ma l'altro trend è che la forza lavoro sta diventando sempre più free lance, in subappalto.
Il posto fisso a vita sta cambiando, il che significa che c'è una fluidità: molta più gente avrà impieghi multipli, con impatti sul modo in cui ti rapporti agli uffici. La mia visione del Nowhere Office è che quell'edificio può essere la suite di un hotel, uno spazio di co-working, o l'ufficio tradizionale: un posto in cui la gente si riunisce per socializzare e imparare e non per un presenzialismo senza senso.
Il modo in cui valutiamo e misuriamo tempo e spazio sta cambiando: sfido chiunque a non accettare questo trend. L'ultra-personalizzazione è qui: questo è il cambiamento».
Ci sono però forti resistenze, a livello aziendale e politico.
«La resistenza è in parte generazionale. E poi c'è l'impatto economico sul modello basato su un distretto centrale del business: la pandemia ha messo in questione quel modello. Ora c'è uno spostamento dai centri città al pendolarismo, al lavoro da remoto. Il punto di resistenza è politico e commerciale».
Dunque ci sono ricadute negative.
«Certo. Ma credo che dobbiamo ribilanciare, riconfigurare e reimmaginare: voglio che il lavoro funzioni meglio. Dobbiamo fare nostra la realtà che le persone, attraverso la tecnologia mobile, sono connesse con la loro vita personale nello stesso momento in cui lavorano. E a meno che l'ambiente di lavoro non accetta ciò, potrai rendere gli uffici più attraenti qualche volta; ma non sempre».
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