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Fabio Tamburini per “CorrierEconomia - Corriere della Sera”
La scelta è di non prendere posizioni pubbliche, evitando con cura ogni tensione con il nuovo commissario straordinario dell’Ilva, Piero Gnudi. Ma, sia pure con discrezione, segnali chiari di grande preoccupazione su quanto sta accadendo sono partiti da casa dei Riva e anche arrivati a destinazione. La protesta, in particolare, è per il via libera dato al vertice di ArcelorMittal, multinazionale dell’acciaio e principale concorrente in Europa, che ha avuto la possibilità di conoscere nei dettagli i numeri aziendali dell’Ilva.
Una decisione irrituale, viene detto, perché ha significato fornire indicazioni preziose su politiche commerciali, lista clienti, organizzazione aziendale e produttiva. Così, comunque vada a finire, ArcelorMittal ha già portato a casa un risultato importante: la scoperta di vita, morte e miracoli del gruppo italiano.
E ora, sempre secondo i Riva, che rimangono gli azionisti di controllo dell’Ilva, c’è un precedente che apre la strada ad altri concorrenti, che potranno chiedere e ottenere la stessa possibilità. Una seconda protesta, felpata ma ferma, è perché finora non sono stati coinvolti dal nuovo commissario. Tanto più che, di fronte a soluzioni convincenti, sono pronti a fare la loro parte apportando nuovi capitali e a contribuire nella ricerca dell’alleanza internazionale necessaria a evitare il crollo definitivo del gruppo. La richiesta dei Riva è di rispettare le procedure formalizzate per legge che prevedono il confronto sul piano sia ambientale sia industriale.
Nuove priorità
Il nodo è proprio questo. L’opinione di Gnudi è che le priorità seguite finora vanno ribaltate. È assurdo che prima vengano definite strategie e obiettivi aziendali, lasciando a una fase successiva la ricerca di nuovi assetti dell’azionariato. Anche perché definire strategie e obiettivi aziendali significa mettere nero su bianco, e secondo le procedure previste approvare per legge, investimenti colossali, che i consulenti della McKinsey, incaricati dal commissario precedente, hanno calcolato in oltre 4 miliardi. Chi accetterà mai di mettere sul piatto una somma del genere per seguire decisioni prese da altri? Senza contare l’incertezza assoluta sugli esiti delle inchieste giudiziarie in corso, che potrebbero stabilire risarcimenti elevati.
Il giudizio negativo e le perplessità sulle procedure previste per legge dal governo precedente sono condivise ampiamente anche da buona parte dei magistrati impegnati nelle inchieste (la magistratura di Taranto sta conducendo quelle sui reati ambientali, mentre la Procura del Tribunale di Milano segue i reati societari e di evasione fiscale). Non si capisce perché, viene detto, per l’Ilva sia stato previsto un iter specifico, fuori dalle regole generali, un ibrido giuridico che finisce per risultare piuttosto oscuro e con margini di ambiguità non irrilevanti.
Una situazione di assoluta anomalia che, tra l’altro, impedisce visibilità sui bilanci aziendali, che non vengono resi pubblici. Molto meglio, piuttosto, rientrare nelle procedure previste nei casi di grandi crisi aziendali e, più esattamente, dalla Legge Marzano, dal nome del ministro delle Attività produttive del governo Berlusconi, che contiene misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato d’insolvenza, entrata in vigore nel febbraio 2004.
nube rossa all ilva di taranto
Intanto l’emergenza è trovare i fondi per pagare stipendi, ridurre gli arretrati verso i fornitori, garantire quanto serve per evitare il blocco degli impianti. Per questo è in arrivo un nuovo provvedimento di legge che, su indicazioni di Gnudi, dovrebbe essere portato da Federica Guidi, ministro per lo Sviluppo economico, a uno dei prossimi Consigli dei ministri. La necessità è di prevedere la cosiddetta prededucibilità, cioè la possibilità per le banche disposte a concedere un prestito ponte di ottenere corsie preferenziali per la restituzione dei finanziamenti in caso di fallimento del gruppo.
FONDI BLOCCATI
Più incerta è la possibilità di utilizzare per l’Ilva i fondi sequestrati dalla Procura di Milano ai Riva per reati fiscali e societari. L’argomento è stato al centro di verifiche approfondite tra i magistrati impegnati nelle indagini, Bondi e lo studio a cui si è affidato, quello dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino.
Anche in questo caso però le difficoltà non mancano. I fondi sono rilevanti, nel complesso inferiori di poco a 2 miliardi, ma sono stati sequestrati per reati specifici. È vero che i provvedimenti legislativi sull’Ilva ne prevedono l’utilizzo, ma appare come una forzatura, su cui gli stessi magistrati richiederebbero prima di procedere a un altro decreto di autorizzazione. In più un conto è disporne il congelamento, un altro è ottenerli dalle banche che li custodiscono.
Il problema, in particolare, si pone per la somma più rilevante: 1,2 miliardi che Emilio Riva, morto dei mesi scorsi, aveva fatto rientrare in Italia seguendo le procedure previste dallo scudo fiscale. Quei denari sono custoditi dalla fiduciaria milanese di una delle principali banche svizzere, la Ubs. E non sarà facile trasferirli nelle casse dell’Ilva. La speranza, alla fine, è che ArcelorMittal o un altro dei gruppi internazionali con cui Gnudi e i suoi consulenti hanno avviato contatti a tutto campo siano disposti a impegnarsi davvero. Ma, allo stato attuale, sarebbe un miracolo.
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