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Da âIl Foglio'
La Cina nel 2013 è cresciuta del 7,6 per cento, ha comunicato ieri la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme di Pechino. Un tasso di sviluppo inferiore a quello del 2012 (7,7 per cento), appena superiore all'obiettivo governativo stabilito a
inizio anno (7,5), certamente il dato peggiore dal 1999.
E tuttavia sufficiente a ricordare che la "grande stagnazione" - come qualcuno ha ribattezzato l'èra dell'uscita lenta dalla crisi scoppiata nel 2008 - è affare tutto occidentale. La stagnazione secolare, come l'ha chiamata l'ex segretario al Tesoro
statunitense Lawrence Summers, non riguarda il mondo emergente, dunque, quello dove vive la maggior parte della popolazione mondiale, dove si produce quasi la metà della ricchezza globale e dove il tasso di crescita sarà vicino al 5 per cento per i
prossimi cinque anni.
Questa almeno è la tesi di William Buiter, capoeconomista di Citigroup, illustrata sul Financial Times. Buiter non crede a un destino di espansione stentata, nemmeno per il mondo occidentale: gli Stati Uniti cresceranno appena sopra il tre per cento nei prossimi due anni, "hardly secular stagnation"; addirittura meglio farà il Regno Unito. Diverso il discorso per l'area dell'euro, dove "una ripresa significativa rimane improbabile" almeno fino a quando stati e banche non avranno smaltito i loro debiti in eccesso, e fino a
quando la Banca centrale non avrà mutato radicalmente l'interpretazione del suo mandato di politica monetaria, troppo concentrato sulla sola stabilità dei prezzi.
Che l'Eurozona rischi di fare storia a sé lo ha confermato ieri il Centre for Economic and Business Research. Il think tank inglese ha previsto che anche i prossimi due decenni non riserveranno sorprese positive per i paesi con la moneta unica, inclusi i primi
della classe. Gli avvicendamenti sul podio della crescita non coinvolgono il Vecchio continente: nel 2028, la Cina diventerà la prima economia del pianeta, scalzando gli Stati Uniti; e nello stesso anno l'India supererà il Giappone al terzo posto.
Ecco invece quel che attende noi, secondo il centro studi che ha tra i suoi committenti agenzie governative e industriali: "Una crescita lenta, una moneta che si indebolisce (rispetto al dollaro, ndr) e dinamiche demografiche negative in alcuni paesi avranno un impatto negativo sulle economie europee". Così, se nel 2013 il pil tedesco ha raggiunto complessivamente quota 3.593 miliardi di dollari (quarto al mondo) e quello inglese 2.649 miliardi (sesto), entro il 2030 l'economia inglese supererà quella tedesca "per divenire la più grande dell'Europa occidentale". Berlino, secondo il Cebr, sarà frenata dalla crescita stagnante dell'Eurozona, da una moneta che si indebolirà , dai necessari "bail out" degli altri paesi membri e dall'invecchiamento demografico.
Scott Corfe, uno degli estensori del rapporto, dice al Foglio che Londra godrà invece ancora per poco, "al massimo un paio d'anni", di una politica monetaria "espansiva", dopodiché sarà soprattutto "il settore dei servizi, a partire da quelli finanziari,
a trainare il paese e il suo export".
"Meno tasse per le imprese italiane"
Tuttavia il sorpasso inglese avverrà solo se la moneta unica nel frattempo rimarrà intatta: "Una Germania che tornasse al marco, se mai sarà superata dal Regno Unito, lo sarà soltanto tra moltissimi anni". Berlino quindi sarebbe avvantaggiata se abbandonasse
la zavorra-euro, perfino rispetto ai paesi periferici che molti reputano penalizzati dalla moneta unica.
Dice al Foglio Douglas McWilliams, già capo dei consiglieri economici dell'associazione degli industriali inglesi e poi fondatore del Cebr: "La competitività delle esportazioni di Berlino diminuirebbe a causa della rivalutazione del marco, ma il valore in dollari del pil tedesco crescerebbe. I paesi periferici invece, con le loro monete indebolite, vedranno
diminuire il loro pil in dollari".
L'economia italiana, posto che l'euro rimanga intatto, scenderà comunque dall'ottavo posto mondiale del 2013 al 15esimo nel 2028. Per contrastare il declino, almeno un aspetto della "cura Cameron" per il Regno Unito può tornare utile a Roma: concentrarsi
sulla riduzione delle imposte che gravano sulle imprese, come suggerito tra gli altri dal sociologo Luca Ricolfi in un'intervista al Foglio, ancora prima che sulla riduzione del cuneo fiscale anche per i dipendenti.
"Ciò avrebbe un effetto molto benefico per l'economia italiana", dice McWilliams. "Soprattutto in una fase storica di crescente mobilità dei capitali, una maggiore competitività delle aliquote fiscali per le imprese è decisiva per attirare nuovi investimenti", conclude Corfè.
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