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    C’ERA UNA VOLTA IL RAVE – CAPANNONI INDUSTRIALI, TEKNO (CON LA KAPPA) A MANETTA E DROGHE A VOLONTA': NEGLI ANNI ’90 I RAVE ERANO LONTANO DALLA SOCIETÀ E VICINI ALL'OLTRETOMBA – ADESSO INVECE FANNO PARTE DELLA CULTURA DI MASSA E DIVENTANO UN BUSINESS AMBITO DALLE CASE DI MODA E DAI CLUB FIGHETTI


     
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    Laura Aguzzi per “la Stampa”

     

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    Per andare a un rave party negli Anni 90, quando cellulari e social non erano certo molto diffusi, bisognava saper leggere una serie di segnali, interpretare codici sociali di riconoscimento, condividere una visione di socialità liberatoria.

     

    C' era la tekno con la kappa, quella a 180 bpm e dai toni cupi, e poi la drum' n'bass. Un numero da chiamare dopo mezzanotte per raggiungere la location segreta, tendenzialmente un ex capannone industriale o un bosco. Un evento da iniziati e con regole precise. Piuttosto limitato nella partecipazione, anche per evitare rischi di retate e controlli.

     

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    Una sottocultura giovanile, che aveva preso le sue mosse nel Regno Unito e Francia per poi diffondersi nel resto del continente. Che si nutriva anche di un certo consumo di droghe. Una sorta di rito catartico contemporaneo.

     

    Lontano dalla società e vicino alla trance. E oggi? Oggi i rave party hanno nutrito un immaginario che supera questi codici ristretti e sono stati in parte traslati in canoni mainstream. Ma un nucleo originario continua a essere attivo e riconoscibile.

     

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    «Il grande cambiamento forse è coinciso con il varo della legge Mariani in Francia nel 2001 - racconta un organizzatore e dj di rave da oltre dieci anni, che ha condiviso eventi anche con il sound system romano Kernel Panic, uno dei principali in Italia - Con il divieto di organizzazione rave senza l' autorizzazione dei prefetti locali molti sound system si sono spostati in Italia e nel resto d' Europa.

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    Quello che era un ambito molto ristretto ha così trovato due nuovi canali nelle grandi feste e nei club. In molti hanno iniziato a vedere possibilità di guadagno. Lo stesso termine "rave" (che tra parentesi deriva dall' inglese "farneticare", ndr) ha avuto un utilizzo più generico per indicare un evento che dura diverse ore legato alla musica elettronica.

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    Ma i rave hanno come caratteristica fondante quella di essere gratuiti, per questo oggi chi li organizza utilizza piuttosto il termine Free Party».

     

    Cosa rimane allora di questo movimento che, sull' onda lunga della cultura comunitaria hippy e del motto punk «Do it yourself» (Fallo da te), ha caratterizzato buona parte della cultura underground degli Anni 80 e 90?

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    Symon Reynolds, forse il più celebre critico musicale al mondo, nella sua riedizione a «Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture» (inizialmente apparso nel 1998) parla di nostalgia da rave: nascono documentari e si tramandano storie orali di un inizio che ormai sembra mitico e perso nel tempo.

     

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    La casa di moda Gucci annuncia di voler realizzare una trilogia interamente dedicata alla rave generation, con la regia di Wu Tsang, Jeremy Deller e Josh Blaaberg. Forse, lentamente, sta succedendo quello che è già successo con il rap: la musica, l' estetica e i principi guida (Rispetta la natura; Rispetta te stesso; Rispetta gli altri) della rave culture stanno trapelando man a mano nella cultura di massa.

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    Così mentre c' è chi parla di morte del movimento, alla spontaneità si è aggiunta l' industria e l' organizzazione: grandi eventi hanno intuito il potenziale aggregativo della musica elettronica più in generale, nonché la sua forza di business e cultura.

     

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    A Torino si è da poco concluso il Kappa Futur Festival, appuntamento estivo gemellato con Movement. Un festival di musica elettronica capace di attirare oltre 25.000 persone al giorno, da 89 Paesi.

     

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    Qui si celebrano le radici della techno, col «ch», non necessariamente quella a 180 bpm. E a veder arrivare sul palco Derrick May, tra i padri del genere, anche l' osservatore più prevenuto vedrebbe cadere i propri pregiudizi.

     

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    Preciso, cosmopolita e professionale, stringe mani affabile e cordiale prima di suonare: una sorta di businessman che con la sua valigetta si appresta a ipnotizzare «il popolo della techno».

     

    Lui tra i padri del genere, con Juan Atkins e Kevin Saunderson, nella Detroit industriale di fine Anni 80.Un rito più di massa forse, ma comunque capace di produrre cultura. Senso di appartenenza. E divertimento.

     

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