Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport
Squilla il mio cellulare. Assolutamente inatteso, è Walter Zenga da Dubai. Non ci posso credere: proprio mentre davanti a me, per un’intervista, c’è Caniggia, eletto trentadue anni fa suo e nostro “carnefice mondiale”. La sorpresa da singolare e fortunata coincidenza si moltiplica per tre. Le risate si inseguono e dopo un primo scambio di battute mediate dal sottoscritto Claudio mi chiede di passargli il telefonino. Il volume è sufficientemente alto, la voce di Walter mi arriva.
CANIGGIA
La “charla”, la chiacchierata, scivola subito sull’erba del San Paolo, semifinale di Italia 90. Alla fine, loro dentro e noi fuori. «Non fu colpa tua, Walt, il pallone sarebbe entrato comunque» dice Caniggia. «Avrei segnato anche se tu fossi rimasto in porta, mandai il pallone dalla parte opposta, ci sarebbe voluto Superman per parare». «E poi avevo Ferri davanti», aggiunge Walter. «Ti difenderò alla morte», la chiosa dell’argentino. Tra i due si insinua una nota sentimental-familiare. «Claudio, ho appena inviato sul whatsapp di Ivan la foto di mio figlio, il più piccolo, ti somiglia tantissimo, un caniggino, ha dieci anni e gioca a calcio». In effetti... Il tema dei figli apre la pagina più amara che dolce dei matrimoni e dei divorzi, uno dei due è primatista italiano. Anche di autoironia.
La telefonata si chiude con la promessa di un incontro a Doha. Caniggia è in gran forma, pura energia, di nuovo centrale, ha voglia di raccontarsi e raccontare la serenità riconquistata a fatica.
CANIGGIA
Si finisce inevitabilmente a parlare del suo Maradona proprio nel giorno in cui il ricordo si fa più triste, intenso, struggente. «Oggi è il 25 novembre, mi era passato di mente. Incredibile. Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che Diego è l’assente più presente... Venni a sapere della sua morte leggendo un quotidiano online. Mi trovavo in Messico con la mia ragazza, a Tulum. C’era la pandemia e il Messico era l’unico Paese in cui si viaggiava liberamente. All’inizio pensai alla solita voce puntualmente smentita: Diego sta male, è in coma, è morto, no, non è ancora morto. Poi mi sono reso conto che era tutto maledettamente vero. Ci eravamo sentiti due mesi prima, non voglio peccare di presunzione, ma penso di essere stato il compagno di squadra più vicino a lui. Quando allenava il Gimnasia andavo spesso a trovarlo. Proprio un bellissimo rapporto. Due Mondiali insieme, nel ’90 ero il più giovane con Fabbri, che però giocò solo la prima partita. E poi il ’94 negli Stati Uniti. Nel ’95 di nuovo insieme al Boca Juniors, il secondo anno con Bilardo».
CANIGGIA
Non ho mai dimenticato quella lunga notte a Dallas, Claudio. Primo luglio ’94, Diego è stato squalificato per positività dopo la seconda partita. Il vostro hotel è blindato, la polizia texana non lascia passare nessuno. Riesco incredibilmente a entrare grazie all’intraprendenza di “Mortadella”, un tifoso della Roma che frequentava i calciatori, grande amico di Moriero. Non c’è più da anni. Saliamo al piano, tu mi vieni incontro un po’ sorpreso di vedermi lì e ci mettiamo a parlare, racconti di lui. Bussiamo alla sua porta, non apre, urla che l’hanno tradito.
«Era distrutto, ero riuscito a entrare nella sua camera per abbracciarlo. Poche, pochissime parole. Diego piangeva, anch’io piangevo. Si sentiva tradito, fisicamente era al top, a Boston si era allenato due volte al giorno. Aveva preso quel prodotto pensando che fossero vitamine. Per essere chiaro, Diego non aveva bisogno di drogarsi per giocare meglio. L’anno prima in Australia, per lo spareggio, io non c’ero, si era presentato dimagritissimo, lo seguiva Daniel, fisico da culturista. In precedenza si era parlato di uno specialista cinese, non ricordo bene».
Caniggia adesso ha gli occhi lucidi, prosegue e ho la sensazione che prima o poi piangerà.
«Dicevano che lui ed io fossimo due incoscienti perché non avevamo paura di niente e nessuno. Avevamo semplicemente tanta fiducia nelle nostre capacità. Io non volevo sapere nulla degli avversari, ne conoscevo forse un paio per squadra, il fatto di ignorarli mi toglieva pressione. A parte Diego, eravamo una nazionale strana, tecnicamente inferiore al Brasile e ad altre. Come si traduce los tumbos in italiano?».
Vicini a cadere.
MARADONA CANIGGIA
«Ma mentalmente forti al punto da riuscire a risollevarci sempre. L’Argentina di Scaloni non era abituata a perdere, veniva da 36 partite senza sconfitte e stava minacciando il record dell’Italia di Mancini. Noi, al contrario, eravamo stati poco entusiasmanti nelle amichevoli pre-Mondiali, ne ricordo una terribile in Croazia. Prima di Italia ’90 avevamo anche sofferto in coppa America, ’89, pur arrivando in semifinale. Bilardo aveva convinto Valdano a tornare in nazionale. Non lo fece giocare mai. Molti reduci dell’86 erano a pezzi. Ruggeri con la pubalgia, Batista e Burruchaga con problemi fisici. Giusti e Tata Brown, altri due casi.
La testa e il cuore, però, erano perfetti. Ho un flash, noi che lasciamo Trigoria per andare a giocare in Israele, se non sbaglio, e Valdano che fa le valigie e se ne torna a Madrid. Il presidente della Roma, Viola, passava ogni giorno per controllare che non demolissimo il suo centro sportivo. E Diego: Siamo indios, non gipsy».
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Beh, tu un po’ zingaro lo sei sempre stato. Per scelta e vita.
«Sono nato in un paesino di 7.000 abitanti, Henderson, con la acca come il giocatore del Liverpool. I miei non erano poveri, media borghesia. A quindici anni mi ritrovai a Buenos Aires, nella giungla della capitale. Il River Plate mi aveva trattenuto dopo il provino. Un ragazzino, da solo. Ho imparato a vivere con me stesso, a non temere l’isolamento, dopo quell’esperienza la solitudine non mi ha fatto più paura. Baires non è la Svizzera dove tutto è regolato. Per fortuna avevo una zia da quelle parti. Sono cresciuto sfidando la strada, la vita, gli avversari, mi è costato parecchio».
Una vita di soddisfazioni, ma anche di errori.
«Mi sono preso qualche rischio e l’ho pagato. Adesso sono più tranquillo. Con Sofia».
Ha 29 anni, 26 meno di te. È più giovane dei tuoi gemelli di 28 e ha un anno in meno del tuo primogenito.
«Che vive in Spagna. Sofia mi fa sentire bene e giovane». Mentre lo dice si apre a un sorriso largo.
Quell’anno di riposo forzato come lo ricordi?
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«Ma non è l’anno al quale pensi tu. Saltai la stagione ’98-99, avevo litigato con il presidente del Boca, Macri, uno scontro tra due ego, con l’ingegnere avrei dovuto trattenermi. Lui ricchissimo, figlio di italiani, potente, nel 2015 divenne presidente dell’Argentina. Degli altri rischi che mi sono assunto non parlo volentieri, fu solo vita, la mia, tanto nel bene quanto nel male».
Nella tua vita uno spazio se l’è preso anche la Roma.
«La gente che ho incontrato per strada in questi giorni è stata fantastica. Affettuosissima. Meno di due stagioni alla Roma, una quindicina di partite in tutto, prima Boskov e poi Mazzone. Pensa che nell’87, avevo 19 anni, arrivai fino alla firma del contratto: pronto, era lì, sul tavolo. Il River non voleva riconoscermi il 15% della cessione, mi impuntai e la Roma saltò. Ballavano 800mila dollari, più o meno».
Che idea ti sei fatto della morte di Diego?
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«So delle cose, le tengo per me. Posso dirti che idea mi sono fatto della sua esistenza perché lo conoscevo nel profondo. Lui doveva proteggersi, nessuno nasce preparato a vivere una vita così. Dicevano che fosse vittima di questo o quel personaggio, di questa o quella situazione, parlavano a sproposito della sua presunta fragilità. Diego ha sempre deciso cosa fare o non fare, non si è mai fatto imporre nulla da nessuno. Gli piaceva essere riconosciuto dalla gente, non avrebbe tollerato una vita nell’ombra. Cazzo, Ivan, vivere da Maradona era impossibile, ma a lui piaceva. Diego era un meraviglioso hijo de puta, ma aveva cuore, anima, generosità».
Messi oggi rischia parecchio.
«Leo in campo è impressionante. Ma ho sempre detto che Maradona e Pelé sono sopra tutti. (..) Forse questa Argentina è stata sovrastimata».
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