Brunella Bolloli per "Libero Quotidiano"
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Casa che cambi, Ikea che visiti. Sembra uno slogan pubblicitario, è la realtà di quasi tutte le famiglie italiane. Ci siamo abituati alle borse blu che si trovano all'ingresso e alla matita di legno con cui annotare il mobile che ci interessa. Entriamo per dare un'occhiata - «solo un giretto veloce» promettono le mogli a mariti già rassegnati in partenza - e usciamo con la macchina strapiena e la carta family caricata di punti.
Servizi di piatti, coperte, tende, zerbini, pentole, sedie, l'immancabile scolaposate con i buchi e lo spazzolino per sgrassare le stoviglie. Le candele profumate alla mela e l'asse tondo di legno. All'Ikea sono belli perfino i tovaglioli di carta: rigorosamente bianchi, essenziali, senza disegnini, sarà che sono svedesi ma sembrano diversi da milioni di tovaglioli di carta bianchi che si trovano in qualunque supermercato del mondo.
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Perché? Sono dell'Ikea. Il colosso dell'arredamento fondato nel '43 dall'allora 17enne Ingvar Kamprad (Ikea prende il nome dalle sue iniziali e dal paesino d'origine) è un'esperienza sensoriale più che un semplice magazzino di oggetti per la casa, ma è anche la prova tangibile di come è cambiato il gusto di abbellire le nostre dimore. Un fenomeno da approfondire dal punto di vista sociologico.
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Basta sfogliare i cataloghi dal '51 ad oggi per fare un tuffo nel passato e ammettere che, sì, tutti noi abbiamo avuto in salotto quella poltrona di tessuto scuro che oggi appare così vintage mentre allora era il top della comodità, o il lampadario un po' sfigato che pendeva dal soffitto beige e le piastrellone a righe in cucina. Nel '56 andava il tavolo basso di legno con il vassoio sopra da cameriere, mentre negli anni '60 si comincia a osare: divano in pelle nera e il tavolino Lövbaken con le sue caratteristiche tre gambe, la superfice semplice da pulire e i piedini in gomma per spostarlo senza rovinare il pavimento.
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Alla fine più moderno di quanto possa sembrare. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60 la famiglia media europea cominciava a riunirsi in soggiorno per vedere la tv, in sala c'era il tappeto a pelo lungo, quasi sempre grigio o nero, che adesso ci sembra porti caldo e acari. Per l'esterno, il pezzo forte era la poltroncina in rattan che richiama le atmosfere della campagna, ma andava bene pure per chi restava in veranda a parlare con il vicino o sul balcone.
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Il mobilio era lineare e senza pretese. Negli anni Settanta esplodono i colori, fa il suo ingresso la chaise-longue Skopa, un classico del design in plastica arancio con cuscino reversibile, e questo è forse l'unico articolo Ikea (insieme alla libreria Billy), dal nome pronunciabile: il resto è comprensibile solo agli scandinavi.
Negli Ottanta cambiano i materiali, spopola il metallo e l'illuminazione è centrale, si cerca di ricreare nelle abitazioni private l'effetto discoteca con lampade grandi e sofà vistosi, mentre nel decennio successivo si torna a uno stile minimal, più nordico e con tanto parquet, fino al Duemila con la manìa delle candele ovunque, il bianco e le forme squadrate.
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Mentre oggi l'imperativo è: sostenibilità, materie prime ecocompatibili, il salvare le foreste, più prodotti riciclati e riciclabili. Il concetto è che il colosso svedese con i suoi prezzi accessibili e il modello do it yourself (fai da solo), ha saputo creare un brand democratico che si sposa con l'idea di casa che vale per la stragrande maggioranza della gente: un nido comodo, al passo con i tempi, senza spendere un capitale. Poi quanto dura è un altro discorso. Diciamo che, prima o poi, tutti abbiamo seguito la moda Ikea proposta dai cataloghi che ogni estate escono dal quartier generale dell'azienda.
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Guide definite la "bibbia" dell'arredamento, non a caso più sfogliate di qualunque pubblicazione in commercio. Ecco perché in queste settimane all'Ikea Museum di Älmhult, in Svezia, la multinazionale ha deciso di pubblicare e digitalizzare tutti i cataloghi usciti dal '51 a oggi. Perché in fondo in quelle pagine c'è anche un po' delle nostre case e quindi della nostra storia.
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