CHESS BOXING
CHESS BOXING
Gabriele Romagnoli per “la Repubblica”
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Come se la sarebbe cavata Albert Einstein in una rissa? E quale era il quoziente d’intelligenza di Carlos Monzón? Ovvero, nello stesso uomo possono coesistere muscoli e cervello, forza e pensiero? Per tradizione più che per esperienza tendiamo a rispondere di no. Nonostante alcuni esempi che releghiamo a eccezione: tiravano di boxe Ernest Hemingway e Norman Mailer, lottava e lotta John Irving, divenne semiprofessionista il sociologo francese Loic Wacquant e, nell’altro angolo, abbiamo il nicaraguense Alexis Arguello, pugile laureato e poi politico e l’americano Kevin Nash, psicologo e poi wrestler di successo.
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Tra gli italiani: fa thai boxe Antonio Franchini, scrittore e manager Mondadori, insegna e pratica filosofia delle arti marziali Daniele Bolelli, all’università di Los Angeles.
Eccezioni, si dirà. Esiste uno sport che tende a regolarizzare quest’aurea ambivalenza. Si chiama chessboxing, tradotto letteralmente: scacchipugilato. E sabato prossimo a Londra, nella semifinale mondiale, un italiano dà la scalata alla corona dei pesi medi.
Si chiama Filippo Gubbini, viene da Foligno e si è conquistato il diritto alla sfida durante una riunione-eliminatoria a Milano. Affronterà quello che, per età, potrebbe essere suo padre: Terry Marsh, inglese, classe 1958.
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Attenzione però: Marsh è un ex pugile dalla biografia tormentata. Fu campione mondiale dei superleggeri e primo europeo a ritirarsi imbattuto (Undefeated, come la sua autobiografia). In seguito venne accusato per l’omicidio del suo procuratore e scontò dieci mesi prima di essere assolto. Si diede alla politica come laburista, poi come liberale, infine come indipendente, indicato sulla scheda come «Nessuno di questi».
Un pugile esperto, ma in là con gli anni, contro uno giovane ma senza un decimo del curriculum. Nel possibile equilibrio irrompono le varianti di Lüneburg e soci. Come possono tenersi insieme scacchiera e ring? Ci vuole fantasia. Infatti il gioco nasce come idea di un disegnatore di fumetti, il francese Enki Bilal, che inventa una partita nella sua graphic novel Freddo equatore .
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L’immaginazione diventa realtà: dà luogo ai primi confronti nell’Europa orientale, a riunioni ad Amburgo e messe in palio di titoli a Dubai. Qualche anno fa, su invito della locale federazione, sono andato a Krasnojark per seguire le finali dei campionati siberiani. Fuori dalla palestra c’erano un termometro che segnava meno 35 e un carro armato sovietico arrugginito.
Dentro, sedie di plastica, funzionari politici, ragazze in bikini per agitare i cartelloni delle riprese, sfidanti in pantaloncini, asciugamani sulle spalle. Si comincia dalla scacchiera e, quando il gong suona, si sale sul ring. Poi si alterna, per nove, undici riprese. Un pugile con il colpo da ko fulminante deve essere almeno sicuro di evitare “lo scacco del barbiere”, tre mosse zac!
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Un giocatore dalla strategia di medio periodo deve saper incassare per qualche ripresa. Poi, è chiaro: i colpi rimediati annebbiano la lucidità delle mosse, ma anche la tensione al tavolino toglie qualcosa sul quadrato. Nella circostanza si laureò campione un giovane di vaste proporzioni che aveva caparbiamente evitato il ko, fino a dare scacco matto. Seguì un “terzo tempo” nella più vicina taverna, con vincitori e sconfitti.
Sedevo tra l’allora campione del mondo, Nikholay Shazin, vent’anni (fermato da un dito rotto che non gli impediva di sollevare bicchieri di vodka brindando: « Chessboxiiing, guuud!») e il responsabile federale Victor Makarov, che trasportava corpi contundenti nel bagagliaio.
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Da allora lo sport si è evoluto, ha trovato a Londra la sua Scala, il nome del locale a King’s Cross dove si svolgerà la riunione di sabato. Il nuovo campione, che attende il vincente tra Gubbini e Marsh, è l’armeno Dymer Agasaryan. «Il gioco degli scacchi è una lotta», sosteneva il matematico tedesco Emanuel Lasker, che ne fu principe dal 1894 al 1921: la definizione conteneva una profezia.
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Per chi patisce la strategia di lungo periodo, si offre la possibilità di chiuderla con un gancio. Per chi invece non è così convinto che la boxe sia nobile arte, ecco la possibilità di rivestirla. La cosa bella è che non sai mai come e con quale mezzo finirà. Terry Marsh, per dire, si è qualificato dopo 9 riprese, a venti secondi dalla fine, non con un pugno fantasma, ma spostando un alfiere e dando, lui per primo sorpreso, scacco matto
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