Vittorio Zucconi per il Venerdì-la Repubblica
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Il buono, il brutto e l' inafferrabile, da mezzo secolo Clint Eastwood è la gioia e la disperazione di chi cerca in lui un santino politico per la propria religione. Genio del cinema, scontroso e irritabile, allergico alla "correttezza politica" che la Hollywood progressista venera, ma altrettanto estraneo all' ortodossia conservatrice degli adoratori di armi, alla loro xenofobia e omofobia, il finto "pistolero" che Sergio Leone trasformò in un' icona riesce, a quasi 88 anni, a essere soltanto se stesso. E a non rispondere ancora alla domanda che Tuco, il bandito con il volto di Eli Wallach, gli grida tra le croci di un desolato cimitero: «Chi sei, Biondino, chi sei?
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Te lo dico io chi sei, se un grandissimo figlio di...» lasciando la risposta volare nella musica di Ennio Morricone.
Con il suo ultimo film, The 15:17 to Paris - che non può non essere letto come un omaggio a un superclassico del Western, 3:10 to Yuma del 1957, titolo italiano Quel treno per Yuma - Eastwood ha continuato quel percorso esasperante che lo ha reso politicamente indecifrabile e artisticamente superbo. C' è un Clint per tutte le stagioni e per tutte le letture, che può essere ammirato da coloro che, come lui, odiano le guerre eppure ammirano i cecchini come l' American Sniper che abbatte il nemico uno alla volta attraverso il proprio mirino telescopico. C' è l' Ispettore Callaghan, lo "Sporco Harry" che sogna di farsi giustizia da solo con la sua 45 Magnum e detesta la codardia burocratica delle istituzioni, e c' è il vecchio Kowalski, il reduce di origini polacche che odia gli immigranti Hmong che hanno sconvolto il suo quartiere, ma alla fine dona la propria vita e la propria adorata Ford Gran Torino a un ragazzo Hmong.
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Eastwood, come avevano intuito i due registi che ha amato di più, Sergio Leone e Don Siegel che lo aveva diretto come Ispettore Callaghan, è una razza di un animale unico, nel cinema americano. I Repubblicani lo credono uno dei loro, da quando fece un monologo alla loro Convention del 2012 apparendo accanto a una sedia vuota che voleva rappresentare l' inesistenza del presidente Obama, invitando a votare per Mitt Romney, una gag imbarazzante della quale più tardi lui stesso si scusò. Una appartenenza ideologica illusoria rafforzata dall' annuncio che avrebbe votato per il "Grande Demone" Donald Trump, polemizzando con Meryl Streep, clintoniana militante.
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Ma l' ex "Biondino" di Il buono, il brutto, il cattivo è iscritto alle liste elettorali del partito Libertario americano, l' unico moncherino di "terza forza" con qualche presenza elettorale fra i mastodonti Repubblicano e Democratico. Nella sua arte, prima di attore e poi di produttore e regista, c' è una fortissima vena di anarchia tipica dei libertari Usa, di disprezzo per l' autorità che gli fece molto amare quella sequenza del capolavoro di Leone dove l' insensato, reciproco massacro di Nordisti e Sudisti è visto soltanto come l' occasione per raggiungere il bottino. Il nazionalismo sciovinista e militarista del trumpismo è smentito da film che demoliscono la retorica del patriottismo in uniforme, al punto di raccontare un' altra inutile strage, quella nel Pacifico, dalla parte dei "musi gialli", i giapponesi, come nessun altro aveva osato fare.
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Il solo eroismo che lui esalta non è quello dei battaglioni mandati al macello, ma dell' individuo, che prende la legge tra le proprie mani ed è pronto a pagarne le conseguenze, come sul treno delle 15.17 per Parigi. Di Trump, come ha detto, gli piacevano appunto la monelleria, l' estraneità, il disprezzo per le convenzioni, la rottura con quella "correttezza politica" che, sbuffa, «sta asfissiando Hollywood».
Ma sempre con una punta di malizia, con un distacco ironico usato per spiegare la sua avversione per Hillary: «Non sopportavo l' idea di ascoltare quella sua voce irritante per quattro anni». Ma è difficile pensare che il realizzatore di Invictus, il racconto indiretto dell' epopea di Nelson Mandela possa avere condiviso quella definizione di "shithole", di merdaio, usata da Trump per definire tutta l' Africa.
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Pirandelliano nel suo essere come vi pare, zelighiano nel saper diventare quello che il suo pubblico planetario vuole, Clint è riuscito a collegare la Hollywood di John Huston con quella di Martin Scorsese, l' America di John F. Kennedy con quella di Donald J. Trump senza mai lasciarsi imprigionare dallo spirito del tempo, raccogliendo record di incassi con i soldi versati equamente da Repubblicani e Democratici. È contro le armi d' assalto, quei fucili automatici che sono divenuti uno dei totem della Destra americana.
È dichiaratamente per il diritto di scelta delle donne, anatema dei devoti bigotti che hanno votato per Trump e dalla parte della comunità Lgbt, altro babau dell' elettorato repubblicano.
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È sopravvissuto, ed è prosperato, toccando l' elemento comune a tutti, il culto dell' individualismo. Se ci è riuscito, con quella sua espressione sempre leggermente ironica e divertita anche nelle scene più violente, è perché sembra - e dunque per il pubblico pagante è - sincero, senza altri fini che non siano quelli di raccontare, senza mai sentire il bisogno di farsi perdonare, sempre Unforgiven come in uno dei suoi film migliori. Perché aveva ragione Tuco, il "bandido" con il cappio al collo e i piedi sulla croce traballante di legno quando gli gridava «sei un gran figlio di...» (musica).
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