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    I 60 ANNI DI “COLAZIONE DA TIFFANY” - IL RACCONTO DI TRUMAN CAPOTE USCI’ NEL 1958 SU “ESQUIRE” E RACCONTAVA MOLTO DI PIÙ DELLA STORIA DELLA SQUILLO HOLLY GOLIGHTLY - È L'EPOPEA DI UN'INTERA GENERAZIONE, UN FITTO INTRECCIO DI TRIONFI E DI CADUTE, UN COSPICUO CATALOGO DI GENIO E SREGOLATEZZA - QUANDO FURONO VENDUTI I DIRITTI, CAPOTE VOLEVA MARILYN MA…


     
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    Stefano Bucci per “la Lettura - Corriere della Sera”

     

    COLAZIONE DA TIFFANY COLAZIONE DA TIFFANY

    Niente sarebbe stato più come prima. Almeno per Truman Streckfus Persons (1924-1984), giovane scrittore di belle speranze appena emerso dall' Alabama, che dopo questo piccolo romanzo breve anzi brevissimo (nemmeno cento pagine) avrebbe speditamente imboccato la strada giusta per diventare Truman Capote, The Genius, il formidabile narratore della nuova società newyorkese molto ricca, molto cosmopolita, molto curiosa.

     

    Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany

    Quella di Peggy Guggenheim, Barbara Hutton, Doris Duke, Gloria Vanderbilt e degli altri Cigni della Quinta Strada; di un Andy Warhol «pre-Factory» e di un ormai già vecchio Mark Rothko; di «Vogue» dominato da Diana Vreeland e di un magazine come «Partisan Review» capace di snocciolare senza timore collaboratori come Mary McCarthy, Saul Bellow, Bernard Malamud.

     

    Breakfast at Tiffany's (uscito giusto sessant'anni fa, sul numero del novembre 1958 di «Esquire») racconta però molto di più della storia, solo all' apparenza leggera, di una call girl chiamata Holly Golightly (all' anagrafe Lulamae Barnes) e - vicino a lei - del fotografo Yunioshi, del gangster Sally Tomato, del miliardario Rusty Trawler e di un gatto maschio tigrato rossiccio e senza nome.

     

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    Colazione da Tiffany è l' epopea di un' intera generazione, un fitto intreccio di trionfi e di cadute, un cospicuo catalogo di genio e sregolatezza, un pesante elenco di bellezze (fisiche) e di brutture (morali). Può essere, nell' ordine: la celebrazione del talento di Capote, della (fino ad allora sconosciuta) bellezza cultural-artistica della Grande Mela, di un inaspettato glamour made in Usa, di una sessualità libera e transgender.

     

    Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany

    Difficile, se non impossibile, immaginare oggi romanzi come Less del neo-Pulitzer Andrew Sean Greer o come A little story di Hanya Yanagihara, ma anche certi passaggi di Bret Easton Ellis, senza Colazione da Tiffany e senza Capote: perché nel racconto di un mondo di affetti spesso ufficialmente dispersi tra vernissage alla Frick, soirée al Metropolitan, weekend sugli Hamptons si ritrova inequivocabile il segno del talento letterario di quell' essere «piccolo, gonfio, smorto, dalla voluminosa testa da feto imbarazzante» e «dalla petulante vocetta agra che passava dall' aggressivo al perentorio secondo l'ambiente sociale, e i ceti», come lo aveva descritto Alberto Arbasino nel saggio che introduceva il Meridiano Mondadori (curato da Gigliola Nocera nel 1999, traduzione di Pier Francesco Paolini) che raccoglieva i suoi romanzi e i suoi racconti: Altre voci altre stanze (1948), L'arpa d' erba (1951), A sangue freddo (1965), Musica per camaleonti (1980), il postumo e incompiuto Preghiere esaudite (1987).

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    La fortuna toccata a questa novella (ormai una griffe) non è però solo letteraria, ma indissolubilmente legata anche al film di tre anni più tardi (altro cult) diretto da Blake Edwards con Audrey Hepburn protagonista: sullo schermo è lei Holly ed è lei che, già nei titoli di testa, occhiali neri e abito nero Givenchy, fa colazione all'alba con tanto di caffè nel bicchiere di carta e brioche davanti alle vetrine (e ai gioielli) di un edificio in granito e pietra calcarea dallo stile vagamente deco, con le porte in acciaio e un mastodontico Atlante che porta sulle spalle un orologio. Insomma, davanti a Tiffany.

     

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    Eppure la novella di Capote era stata addirittura bocciata da quell'«Harper' s Bazaar» che l'aveva commissionata. Tutta colpa dei suoi contenuti che avrebbero potuto offendere un brand come Tiffany & Co. che investiva moltissimo in pubblicità. Perché nell'America fine anni Cinquanta, bella e bacchettona, Breakfast at Tiffany' s resta pur sempre la storia pop di una geisha americana di 19 anni, a metà tra la dama di compagnia e la escort, frivola e bisessuale, violentata da bambina e sposa a 12 anni, vissuta in una desolata fattoria del Texas e scappata dal profondo Sud per cercare fortuna.

     

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    Che dice senza paura: «Non voglio, per me, possedere niente fino a quando non avrò trovato un posto come Tiffany»; un posto buono per rifugiarsi quando ti prende l' angoscia: Holly ha provato anche con l' aspirina e con la marijuana («Mi fa solo venire da ridere»), ma quello che le fa veramente bene è saltare su un taxi e farsi portare da Tiffany: «L'atmosfera lì mi calma subito: quella quiete... niente di veramente brutto può capitarti tra capo e collo. Se riuscissi a trovare una casa, nel mondo reale, in cui mi sentissi così tranquilla come da Tiffany, ebbene ci andrei ad abitare, l' arrederei e darei un nome al gatto».

     

    Alla fine, dopo una serie di dilazioni e di lettere infuocate (in cui Capote chiamava la redazione di «Harper' s» all time bastards) questa favola triste sarebbe comunque uscita, con le foto di David Attie (un'altra delle condizioni dettate da Capote), un illustratore venticinquenne che faceva fatica a sbarcare il lunario e che si era iscritto a un corso di fotografia tenuto da Alexey Brodovitch (l'art director inventore dei giornali moderni): una sera, preparando un' esercitazione, si sarebbe addormentato davanti al tavolo da lavoro lasciando i fogli da stampare nei liquidi di sviluppo, al risveglio avrebbe trovato immagini sovraesposte e troppo chiare. Per salvarsi la faccia le avrebbe montate ugualmente una sopra l' altra, in un gioco di trasparenze e sovrapposizioni, che gli avrebbe assicurato la passione di Truman.

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    Quando aveva venduto i diritti per il cinema, Capote aveva già in mente la Monroe, voleva Marilyn per quella sorta di suo autoritratto al femminile. Il film (anche grazie alla musica di Henry Mancini e di Moon River) è sicuramente qualcosa di diverso: non c' è, ad esempio, nessun bacio sotto la pioggia tra la Hepburn e George Peppard (lo scrittore-gigolò che nel romanzo si interroga su che fine abbia fatto Holly e se mai la rivedrà), così come non c' è nessun lieto fine in Sud America.

     

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    Marilyn, rispetto all' eleganza senza tempo della Hepburn, avrebbe forse regalato un tocco di tragicità in più a Holly Golithly. Perché tragico sarebbe stato comunque il destino finale di The Genius: travolto e abbandonato dalla stessa high-society che aveva celebrato, Capote sarebbe morto in solitudine e le sue ceneri sarebbero state vendute all' asta nel 2016 per appena 43.750 dollari, meno della stima di partenza del pendente di Tiffany con zaffiro giallo da 40 carati, diamanti e platino che, il 28 maggio, andrà all' asta da Phillips a Hong Kong.

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