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    “COMUNISTA NON DIREI, TESTA DI CA**O CERTAMENTE” – L’IRONIA DI FALETTI DAVANTI ALL’INTERCETTAZIONE IN CUI LA MINETTI LO DEFINIVA “COMUNISTA TESTA DI CAZZO” – A 5 ANNI DALLA MORTE LA MOGLIE DELL’ARTISTA LO RICORDA STASERA CON UN CORTO - "CON “SIGNOR TENENTE”, SCRITTA IN MEZZ’ORA, CAPÌ CHE POTEVA ARRIVARE AL CUORE DEL PUBBLICO ANCHE SENZA FAR RIDERE" - VIDEO


     
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    Antonello Piroso per “la Verità”

     

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    Giorgio Faletti, morto a 63 anni il 4 luglio 2014, era una matrioska. Artista pronto a smarcarsi da sé stesso, svelava ogni volta un aspetto inedito della sua personalità poliedrica e multitasking. Cabarettista. Autore di canzoni. Musicista in proprio. Pittore. Attore. Pilota di rally. Scrittore da milioni di copie. In un' intercettazione del groviglio bunga-bunga, Nicole Minetti, vai a sapere perché, lo definiva «comunista testa di cazzo». Quando l' ascoltò, sorrise: «Comunista non direi, testa di cazzo certamente».

     

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    A custodirne il ricordo, mai svanito, ci pensa sua moglie: Roberta Bellesini - solare, sorridente (riderà spesso durante la nostra conversazione), presidente della Fondazione Biblioteca Astense, dal 2014 intestata proprio a Faletti - che ha raccontato la loro storia in Io e Giorgio, libro-intervista di Veronica Iannotti, edizioni Real Press. E questa sera a Taormina, prima del film Nato il 4 luglio di Oliver Stone, presidente della giuria, verrà proiettato La ricetta della mamma, un «corto» prodotto da Bellesini proprio da un racconto del marito.

     

    Suo marito temeva la damnatio memoriae, che la sua vita e le sue opere andassero perdute nel tempo.

    «Mi consenta una battuta "alla Faletti": mio marito è venuto a mancare il 4 luglio, una data storica di suo, non poteva certo scegliere un giorno qualsiasi. E poi sì, una sera di tanti anni fa se ne uscì con questa frase: "Sai qual è la mia più grande paura? Quello di essere un giorno dimenticato"».

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    Non è successo. Mi racconta il primo incontro?

    «Lo guardavo in tv, a Drive In, dove era Vito Catozzo, Suor Daliso, Carlino con il suo "giumbotto". Poi lo vidi di persona davanti al bar Cocchi, ad Asti, che era un punto di ritrovo: scendeva da una Ferrari.Pensai volesse sfoggiarla con gli amici, per far vedere che era "arrivato". Capii solo in seguito che non era uno spaccone, ma un bambinone dall' animo fanciullesco che se aveva un "giocattolo" nuovo, lo voleva condividere.

    Era un uomo molto generoso».

     

    Cominciaste a frequentarvi solo molti anni dopo.

    «Sono sempre stata fatalista. Accadde che un' amica organizzò a casa una spaghettata in occasione della finale degli Europei di calcio 2000, quella che perdemmo contro i francesi. Giorgio era tifosissimo della Juventus».

    Vabbe', nessuno è perfetto...

    «Da lì iniziò un corteggiamento non dichiarato che durò qualche tempo (c' erano 19 anni di differenza e lui faceva parte di un mondo che non era il mio), ma alla fine compresi che il suo interessamento era autentico e sincero, così andai a vivere con lui a Milano. Ma dopo tre anni tornammo ad Asti, e per decisione di Giorgio».

     

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    Lei invece di che mondo faceva parte?

    «Mi ero iscritta alla facoltà di architettura, ma non mi laureai: avevo iniziato a lavorare in uno studio di progettazioni, occupandomi di urbanistica. Rimasi lì per 15 anni prima di mettermi in proprio, e ho continuato con la mia attività anche quando ho conosciuto Giorgio, perché per un verso ero "la moglie di" (ci siamo sposati civilmente perché Giorgio era divorziato), per un altro ero Roberta, me stessa. E Giorgio era d' accordo: non mi ha mai chiesto, né si è mai aspettato, che io mi annullassi nel nostro rapporto».

     

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    Gelosa del suo passato?

    «Lui mi raccontò molto, ma non mi interessavano tutti i dettagli. Visto che lui ripeteva che, prima di conoscermi, la metà dei soldi li spendeva per donne e auto sportive, e l' altra metà la sprecava, mi sono sempre detta: per fortuna che all' epoca non lo conoscevo».

     

    Battuta alla George Best a parte, magari millantava.

    «Allora diciamo che non ho mai voluto approfondire».

    Nel Duemila la sua prima vita professionale, quella del comico, si era consumata.

    «A lui Asti andava stretta, e non certo per arroganza e snobismo: suo padre era un commerciante ambulante di bottoni, sua madre una sarta. Si era iscritto a giurisprudenza, ma a metà degli anni Settanta aveva iniziato a frequentare la scuola teatrale Quelli di Grock di Maurizio Nichetti, e a bazzicare il Derby, che era il tempio del cabaret milanese».

     

    La classica gavetta.

    «Sul finire degli anni Settanta aveva debuttato a Telealtomilanese, quindi nel 1983 approdò in Rai al Pronto, Raffaella? della Carrà. Da lì, il passaggio a Drive In, e la nascita dei suoi personaggi più noti. Quindi Fantastico e Striscia la notizia. A quel punto Giorgio si chiamò fuori, rinunciando a programmi e ospitate che, tra l' altro, gli fruttavano rilevanti cachet».

     

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    Come mai? Poteva vivere di rendita, come tanti ricchi impiegati del video.

    «Giorgio amava ripetere: "Ho sempre sostituito la paura di non farcela con la speranza di farcela di nuovo". Anche la tv cominciò ad andargli stretta, ma non certo per supponenza: semplicemente, pensava di avere altro da dire. Così si dedicò alla musica, che è sempre stata una delle sue passioni. Ma non l' opera, che invece piace a me: non mi accompagnava perché sosteneva di annoiarsi mortalmente».

     

    La collezione di chitarre elettriche, una dozzina, appese alle pareti nella vostra casa di Asti, non sfigurerebbe negli studi di Virgin Radio.

    «Ne era orgoglioso: Yamaha, Gibson, Fender, una Pensa-Suhr serie limitata progettata per Mark Knopfler dei Dire Straits, di cui andava orgogliosissimo.

    In realtà aveva cominciato nel 1977 scrivendo testi per Dario Baldan Bembo.

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    Nel 1991 uscì il suo secondo disco Disperato ma non serio, che conteneva Ulula, la cui clip fu pluripremiata, e con cui partecipò al Festivalbar. Poi scrisse una serie di brani per Mina e Milva, per Angelo Branduardi, quindi partecipò al Festival di Sanremo in coppia con Orietta Berti».

     

    Più d' uno si chiese: perché?

    «E lui rispondeva: perché no? Considerava Fin che la barca va geniale, Orietta Berti un' artista genuina e molto ironica, e il fatto che lei continuasse a esibirsi lo considerava la prova che aveva superato il severo responso delle tre giurie individuate da Enrico Ruggeri, un altro caro amico: pubblico, critica, tempo».

     

    Nel 1994 lasciò tutti a bocca aperta, sempre all' Ariston, con Signor tenente. In cui tra l' altro l' iterazione del termine «minchia» non scandalizzò.

    «La scrisse in mezz' ora, seduto in auto mentre aspettava il suo agente, poi, con il suo consueto low profile, perché sembrava non rendersi conto delle cose che creava, gliela sottopose. E al suo manager vennero le lacrime agli occhi: "Hai scritto un capolavoro".

    Con quella partecipazione capì che poteva arrivare al cuore del pubblico anche senza far ridere».

     

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    Arriviamo al 2002. Io uccido. Il suo primo romanzo. Cinque milioni di copie, venduto in 22 paesi. E poi 4 milioni di copie con il successivo Niente di vero tranne gli occhi. Anche qui, un nuovo, spiazzante scarto creativo.

    «Accompagnato dall' ictus che lo colpì il giorno dell' uscita. Tutti si aspettavano l' ennesimo comico che scriveva un libro comico, e invece al romanzo era arrivato attraverso la stesura di alcuni racconti».

     

    È vero che all' inizio, siccome temeva di non essere preso sul serio, aveva pensato a uno pseudonimo?

    «Sì: George B. Maker, che poi era la traduzione del suo nome, dove la "b" sta per beds, letti: beds-maker, fa-letti. Alessandro Dalai di Baldini & Castoldi lo spinse a cimentarsi con un' opera di più ampio respiro. Detto, fatto. Tre mesi dopo Giorgio si presentò con Io, uccido. Firmato con il suo vero nome».

     

    Jeffrey Deaver, autore di thriller da decine di milioni di copie, lo definì «larger than life»: una leggenda.

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    «E a Giorgio venne un mezzo coccolone, mai avrebbe immaginato di sentire un suo idolo, di cui aveva divorato i libri, esprimersi così».

     

    Suo marito è stato vittima di gravi acciacchi.

    «Soffrì di una grave forma di ipertiroidismo, poi ebbe l' ictus di cui dicevo, quindi un infarto, fino al tumore, che scoprimmo con una risonanza magnetica per via dei forti dolori alla schiena che non lo abbandonavano mai, dovuti a una serie di ernie. Era il gennaio 2014, e in sei mesi Giorgio non c' era più: cancro al polmone, con metastasi al fegato e alla colonna vertebrale. Partimmo per Los Angeles per intraprendere un ciclo di cure, e tornammo ad Asti due settimane prima dell' epilogo».

     

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    Nell' opera teatrale L' ultimo giorno di sole, interpretata dall' attrice Chiara Buratti, c' è una frase che sembra un presagio: «Sorridere con una disperata paura della morte».

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    «Può apparire così, ma Giorgio finì di scrivere a dicembre 2013, la diagnosi ci fu un mese dopo. La paura della morte Giorgio l' ha sempre esorcizzata: fino all' ultimo, era convinto di farcela».

     

    Niente figli.

    «Sono fatalista, come le dicevo: è andata così. Avessi sentito il desiderio, avrei affrontato il discorso con Giorgio. Che però di figli non ne voleva, gli piacevano i bambini ma non si sentiva in grado di diventare padre».

     

    Era credente?

    «A modo suo: critico nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, ma con una parte spirituale molto forte dentro di sé. Prova ne sia la canzone L' assurdo mestiere, una sorte di preghiera laica, che riflette la sua speranza che oltre questa vita ce ne sia un' altra, e che un qualche Dio esista».

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    Se le chiedessi una frase che il carattere di suo marito?

    «Gliene propongo due.In Notte prima degli esami di Fausto Brizzi, lui fece inserire nella sceneggiatura una battuta per il suo personaggio, il professore, che rivolto a uno studente osserva: "L' importante non è quello che trovi alla fine della corsa, ma quello che provi mentre corri". La seconda l' ha ricordata lei, Piroso, nel suo monologo Adrenaluna, un mese fa al Festival Passepartout di Asti: "La luna è di tutti, e ognuno di noi ha il diritto di ulularle". La miglior rivendicazione del suo essere libero».

    Enzo Jannacci al Derby tra i suoi “figli” tra cui Ernst Thole, Abatantuono, Boldi e Faletti Enzo Jannacci al Derby tra i suoi “figli” tra cui Ernst Thole, Abatantuono, Boldi e Faletti

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