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    PALERMO VELENO ETERNO – DOPO LA SENTENZA DI STRASBURGO CONTRADA ALL’ATTACCO: STAVO PER PRENDERE PROVENZANO, DAVO FASTIDIO ALLA DIA DI TAVORMINA E DE GENNARO – “VOGLIO CHE LA MIA CONDANNA VENGA ANNULLATA”


     
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    1. CONTRADA: STAVO PER PRENDERE PROVENZANO

    Salvo Palazzolo per “la Repubblica

    BRUNO CONTRADA ESCE DAL CARCERE BRUNO CONTRADA ESCE DAL CARCERE

     

    «Lo sa cosa mi hanno detto qualche tempo fa? — esordisce Bruno Contrada — “Ti hanno voluto togliere di mezzo”».

     

    Chi glielo ha detto?

    «Gente del mestiere, che sa. La mia vita è stata devastata per 23 anni. E adesso lo dice anche la Corte europea per i diritti dell’uomo ».

     

    I giudici di Strasburgo, in realtà, non entrano nel merito del suo caso. Fanno solo delle osservazioni sul reato di concorso esterno.

    «La giustizia europea è importante, ma adesso mi interessa quella italiana. Voglio che la mia sentenza di condanna venga annullata con un giudizio di revisione».

     

    BRUNO CONTRADA NEL 1998 BRUNO CONTRADA NEL 1998

    Torniamo ai fatti del processo, allora. Per quale ragione l’avrebbero bloccata, come dice lei?

    «Tutti i miei guai sono iniziati nel 1992, quando ricevetti l’incarico dal direttore del Sisde di riorganizzare il servizio segreto civile per contrastare il pericolo dell’eversione mafiosa. A qualcuno non faceva piacere, nonostante il governo avesse dato indicazioni precise in tal senso».

     

    A chi si riferisce?

    «La Direzione investigativa antimafia non gradiva assolutamente. All’epoca, era diretta dal generale Tavormina, il suo vice operativo era Gianni De Gennaro, che aveva un grado inferiore al mio. Ci muovevamo su strade parallele».

     

    Ammetterà che anche De Gennaro aveva un’esperienza significativa maturata al fianco del giudice Falcone nel corso degli anni Ottanta.

    BRUNO CONTRADA NEL 1992 BRUNO CONTRADA NEL 1992

    «Ma in quello scorcio del 1992, io avevo un’indicazione importante per catturare uno dei due latitanti più pericolosi di Cosa nostra: Bernardo Provenzano. Una fonte mi aveva passato i numeri di cellulare di alcune persone vicinissime al boss. D’intesa con il capo della polizia Vincenzo Parisi era stato creato un gruppo di lavoro misto, con elementi della Criminalpol e dei Servizi. Ma all’improvviso quel gruppo venne smantellato nonostante le ottime possibilità di arrivare all’obiettivo. E qualche settimana dopo io fui arrestato».

     

    Sta dicendo che la sua vicenda giudiziaria nasce da uno scontro fra istituzioni dello Stato? Un’accusa grave.

    «Ho 83 anni, continuo ad essere un uomo delle istituzioni, non voglio accusare nessuno per fatti del passato o del presente. Qualcuno, poi, farà i conti con la propria coscienza. Io racconto solo fatti: in quei mesi di indagini con la polizia, non ho mai conosciuto alcun esponente della Dia. I primi li ho visti a casa mia, alla vigilia di Natale del 1992, quando sono venuti ad arrestarmi. E ho scoperto che era stata proprio la Dia a fare le indagini su di me».

     

    BRUNO CONTRADA NEL 1979 BRUNO CONTRADA NEL 1979

    La Direzione investigativa antimafia era stata incaricata dalla procura di Palermo di cercare i riscontri alle pesanti accuse che arrivavano dai collaboratori di giustizia. Non certo gli ultimi arrivati: Mutolo, Marchese, Marino Mannoia e persino Buscetta. Sulle loro dichiarazioni si fondano le sentenze di condanna.

    «Pentiti? Un nugolo di pendagli da forca».

     

    Nei tanti processi in cui sono stati chiamati a deporre, non sono stati mai smentiti.

    «Io ho indagato su di loro negli anni Settanta e Ottanta. È chiaro che volevano vendicarsi. E gli è stata data la possibilità di farlo».

     

    Hanno raccontato con dovizia di particolari di suoi incontri con capimafia. Davvero non li ha incontrati, magari per avere notizie confidenziali?

    «Parliamoci chiaro, in quegli anni i pentiti non esistevano e ogni poliziotto aveva i suoi confidenti, che poi venivano ricompensati in un modo o nell’altro. Ogni poliziotto vero, intendo, di quelli che stavano in strada».

     

    Anche lei aveva dei confidenti?

    «Certo che li avevo, ma non erano i capi della mafia. Mi rendevo conto che certe frequentazioni sarebbero state rischiose, sarei rimasto invischiato».

    Foto inedita lagente dei servizi segreti USA oscurato consegna una targa a Di Pietro alla cena con Contrada nel Da Libero Foto inedita lagente dei servizi segreti USA oscurato consegna una targa a Di Pietro alla cena con Contrada nel Da Libero

     

    È l’accusa che le muove il pentito Gaspare Mutolo, un rapporto quasi di scambio con il capomafia Rosario Riccobono.

    «Non era un mio confidente, però sapevo tutto dei movimenti che faceva, attraverso il suo medico. E poi avevo tante altre fonti, che tenevano un piede dentro e un piede fuori da Cosa nostra. Così evitavo di essere strumentalizzato. Per questo voglio la revisione del processo».

     

     

    2. SENTENZA DISCUTIBILE. CANTONATA

    Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera

     

    «È una sentenza discutibile — commenta il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi —, perché sostenere che prima del 1994 il “concorso esterno” non fosse conoscibile e prevedibile mi pare difficile; se è per questo qualcuno può dirlo ancora oggi, anche dopo quattro pronunce della Cassazione a sezioni unite, e infatti c’è chi lo dice. È una tesi argomentabile, ma dal mio punto di vista poco convincente. Comunque è una pronuncia che va rispettata, vedremo se il governo italiano farà appello alla Grande Chambre».

     

    FRANCESCO LO VOI FRANCESCO LO VOI

     Lo Voi è un magistrato che ha lavorato a lungo in Europa, come rappresentante italiano a Eurojust, e conosce bene il valore dei verdetti di Strasburgo: «La corte non dice se i fatti sono stati commessi o meno, non c’è alcuna valutazione nel merito; si limita a dire che c’è una creazione giurisprudenziale stabilizzatasi solo successivamente al periodo indicato nel capo d’imputazione; né viene indicata alcuna violazione delle regole del giusto processo. Per questo non so che influenza possa avere sulla nuova istanza di revisione».

     
    Di sicuro la sentenza riapre il dibattito sul concorso esterno nell’associazione mafiosa avviato da Giovanni Falcone, che chiudendo l’istruttoria del terzo maxiprocesso a Cosa nostra scrisse che era arrivato il momento di «ipotizzare il delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato». Era il 1987, e da allora ci sono state sentenze contrastanti e contraddittorie sul «combinato disposto» degli articoli 110 e 416 bis del codice penale (il primo risalente al 1930, l’altro al 1982).

     

    Per questo — tra le toghe italiane, più avvezze di quelle di altri Paesi a ragionare sui reati di mafia — c’è chi dice che i giudici di Strasburgo hanno sbagliato; anche negli anni Ottanta il poliziotto Bruno Contrada (condannato per fatti risalenti al decennio 1978-88), poteva ben essere consapevole che stava commettendo un reato. Sebbene un paio di sentenze, tra l’87 e l’89, ne abbiano persino escluso l’ipotizzabilità. La prima sentenza di Cassazione che fa un po’ di chiarezza è del 1994, quando Contrada era inquisito (e agli arresti) da quasi due anni. 

    IL GUP PIERGIORGIO MOROSINI IL GUP PIERGIORGIO MOROSINI


    «Io credo — commenta Piergiorgio Morosini, giudice delle indagini preliminari a Palermo fino all’anno scorso, quando è stato eletto al Consiglio superiore della magistratura — che di fronte a una condotta protrattasi per quasi un decennio si poteva contestare la partecipazione all’associazione mafiosa. Il cosiddetto concorso esterno è un modo per estendere l’applicazione del reato associativo, e dunque ritengo che la portata della sentenza sul caso specifico possa essere ridimensionata. Piuttosto si pone un problema più generale rispetto ai reati frutto di “creazione giurisprudenziale”, cioè non espressamente previsti dal codice ma elaborati attraverso il susseguirsi di sentenze. È questo che viene messo in discussione, e pone la necessità di un supplemento di attenzione nell’attività interpretativa dei giudici». 


    Sembra quasi che un processo durato quindici anni tra indagini e cinque sentenze altalenanti, dopo la sentenza di Strasburgo venga affrontato dai magistrati come una disputa dottrinale anziché come l’ultimo capitolo di una condanna a 10 anni di carcere scontati da uno più famosi poliziotti di Palermo. Forse anche perché, con un risarcimento poco più che simbolico da 10.000 euro, la stessa corte europea lascia intendere di non aver messo in dubbio la colpevolezza del ricorrente.

     

    Antonio Ingroia Antonio Ingroia

    In maniera meno diplomatica e più diretta di altri, da esponente politico e avvocato qual è adesso, l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia che rappresentò l’accusa contro Contrada al processo di primo grado sintetizza: «A Strasburgo hanno preso una cantonata pensando che i fatti contestati non fossero punibili in assenza del reato di concorso esterno, ma non è così: sarebbero stati comunque punibili attraverso il favoreggiamento». 

    ingroia nel durante il processo contrada ingroia nel durante il processo contrada

     

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