big aarti olivia dubey

INSTACHILOGRAM - UNA BLOGGER INDIANA POSTA SU INSTAGRAM UNA SUA FOTO IN COMPAGNIA DI DUE AMICHE, CICCIOTTELLE COME LEI, E I “MODERATORI” LA RIMUOVONO. LEI S’INCAZZA E ATTACCA: “TRE DONNE GRASSE DI PELLE SCURA SONO OFFENSIVE”?

AARTI OLIVIA DUBEYAARTI OLIVIA DUBEY

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano

 

I social sono razzisti? È una domanda nient' affatto provocatoria di fronte al caso di Aarti Olivia Dubey, blogger di origini indiane-singaporeane. In compagnia con due amiche, ha postato una foto in bikini su Instagram, uno scatto di retroscena a un servizio per una rivista di Singapore, perché Aarti oltre che star di Instagram con 17mila follower sul suo profilo, è anche modella. La foto è stata bersaglio di numerose segnalazioni e, la mattina dopo, Aarti scopre che è stata cancellata. Giustamente, esce di testa.

 

Già, perché potete vedere di che foto si tratti: tre ragazze indiscutibilmente sovrappeso (chiaro, la cosa salta agli occhi, non facciamo gli ipocriti), in costume a due pezzi, che sorridono all' obiettivo. Tutto qui. Tre simpatiche buzzicone che si godono la vita.

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La furia di Aarti che appena sveglia scopre di essere impresentabile per gli standard estetici e morali di Instagram è tutta in queste parole, indirizzate ai moderatori del social: «In che modo quest' immagine sarebbe offensiva o oscena? Che motivo avete avuto per cancellarla? Mi volete far credere che tre grasse donne di pelle scura sono più offensive del letame e dello schifo che consentite su Instagram? Forse che tre donne grasse in costume da bagno sono raccapriccianti, pornografiche, sessiste o razziste?».

 

A stretto giro, la foto viene ripristinata, con algide e penose scuse dei moderatori, che dicono che l' immagine è stata cancellata «per errore».Ma che razza di orrendo errore. Dunque i moderatori del social, queste figure di cui si narrano leggende, che sarebbero a metà tra esseri digitali, algoritmi senz' anima, e supervisori della morale ispirati da menti dal quoziente intellettuale stellare, ricevono demenziali e insensate segnalazioni di rimozione, e vi acconsentono così, con nonchalance, «per errore».

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Questo tanto per dire il livello di accuratezza e di approfondimento con cui viene mantenuto l' ordine, e il rispetto per gli utenti, sui social. E invece ha ragione Aarti a arrabbiarsi di brutto, perché, altro che errore, il sospetto di una scelta deliberata, intenzionale, nella censura del suo scatto, è molto forte.

 

Pensiamoci: un social è un organismo in espansione, ha bisogno di utenti, di crescere continuamente, e come cresce? Tramite il meccanismo del «mi piace», del like, del cuoricino, del commento entusiastico, del supporto fanatico, di quella cosa orrenda che ormai tiene banco nel nostro tempo e che in inglese si chiama «hype», cioè l' esagerazione iperbolica, entusiastica, drogata, di qualunque banalità.

 

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Ecco che in questo meccanismo implacabile, in questo Leviatano, una fotografia come quella di Aarti e delle sue due amiche, con la cellulite sfacciatamente esibita, i seni debordanti, le gambe come colonne doriche, non può trovare posto, se non come il granello di sabbia che rischia di inceppare tutta la macchina del consenso e dell' hype.

 

Il razzismo, in questo caso, viene giocoforza, di riflesso, nel senso che a forza di potenziare ciò che conquista molti like, che risulta subito desiderabile, che si avvicina di più a un mondo di idealizzata e trascelta beltà, uno scatto per così dire iperrealistico - e in tal senso davvero molto bello - come quello di Aarti, deve essere censurato.

 

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Sapete, come in certi club esclusivi, dove viene favorito l' ingresso delle bellezze ariane, così da far buona pubblicità al locale. Ma la questione non è dei social, in sé, che sono solo luoghi di aggregazione di persone in carne e ossa. È che quando ci raccontano la favola dell' integrazione, dell' uguaglianza universali e arcobaleno, è appunto una favola. Il razzismo è ancora tra noi, e in nuove forme, algoritmiche, più aggressivo che mai.