DAGOREPORT – CHI È STATO A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA DELLE DIMISSIONI DI ELISABETTA BELLONI? LE…
Massimo Costa per "Libero Quotidiano"
«La mafia è stata tenuta lontana e quando ha tentato di infiltrarsi è stata sconfitta». Il sindaco Giuliano Pisapia, giusto lunedì, gonfiava il petto per celebrare l’esposizione universale mafia-free.
Un pizzico di ottimismo di troppo. Ventiquattrore dopo l’uscita del sindaco, infatti, una delle opere connesse all’Expo 2015 è protagonista della maxiretata della Procura di Milano che decapita una delle cosche attive per conto della ’ndrangheta in Lombardia.
Tredici arresti per associazione di tipo mafioso e reati come porto abusivo di armi, riciclaggio, minacce, danneggiamento, abuso d’ufficio. E un’impresa riconducibile a Giuseppe Galati, presunto boss della ’ndrangheta, che era riuscita ad ottenere perfino il certificato antimafia per lavorare in due subappalti della Tangenziale est esterna di Milano, collegamento stradale inserito tra le grandi opere del dossier Expo.
PISAPIA E CINZIA SASSO ALLA PRIMA DELLA SCALA 2013
Come hanno fatto le cosche a superare indenni i controlli della prefettura sugli appalti e a ottenere il bollino antimafia per la Skavedil? «Quando si è fatta l’istruttoria sui subappalti» ha spiegato ieri il pm Ilda Boccassini, «si sono controllati solo gli attuali titolari, ma bastava fare uno storico per vedere chi c’era prima, e cioè una persona con reati gravissimi».
Giuseppe Galati, in galera a Cosenza per traffico di stupefacenti, aveva ordinato dal carcere la cessione delle sue quote ai cognati. Così la Skavedil ha ricevuto dalla Edilscavi di Modena due contratti di subappalto sulla Tem per 450mila euro ed è riuscita a eludere i controlli.
Una beffa per la famosa white-list messa in piedi dalle istituzioni per contrastare le infiltrazioni. L’operazione «Quadrifoglio», coordinata dal pool di Ilda Boccassini con Ros e Dia, ha portato all’arresto di 4 esponenti del clan dei Galati (legato alla famiglia calabrese dei Mancuso), dell’ex consigliere Pd di Rho Luigi Addisi (accusato di riciclaggio e abuso d’ufficio per aver favorito i boss in un tentativo di speculazione immobiliare), dell’ottantenne Salvatore Muscatello (già agli arresti domiciliari perché condannato per associazione mafiosa a seguito del processo «Infinito») e di altri personaggi accusati di collaborare con il clan.
Un imprenditore, un funzionario dell’Agenzia delle entrate, un agente di polizia penitenziaria. «Nulla è cambiato negli ultimi anni» ha detto ieri la Boccassini, «le “locali” in Lombardia hanno un capillare controllo del territorio». I Galati, secondo l’accusa, controllavano un negozio “compro oro” dove si ricettavano i proventi delle rapine, facevano speculazioni immobiliari con l’aiuto dei politici locali. E poi aggressioni, minacce, estorsioni.
La direttrice del carcere di Monza, Maria Pitaniello, ha ricevuto da alcuni degli indagati tre proiettili in una busta e minacce di morte. Antonio Galati, il capo dell’organizzazione criminale residente nel Comasco nonché padre di Giuseppe, era stato condannato all’ergastolo ma aveva ottenuto il regime di semilibertà.
Secondo la Boccassini, «continuava tramite i propri parenti a gestire i suoi interessi mentre girava liberamente per Milano». Ai sodali dell’organizzazione, Galati avrebbe ordinato ai suoi di incendiare la macchina a un vigile urbano. La sua colpa? Lo aveva visto con un pregiudicato e steso un rapporto al tribunale di Sorveglianza.
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