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Antonello Piroso per “la Verità”
Indomita e battagliera lo è sempre, Letizia Battaglia. Un nome e un cognome che incarnano un ossimoro. Da una parte, la gioia, la serenità, il bene. Dall' altra, la lotta, il conflitto, la guerra.
Arrivata a 84 anni, la voce arrochita dalla quantità industriale di sigarette fumate ogni giorno ("Dovrei diminuirle», «Perché, quante sono?», «Cinquanta, sessanta, vorrei stare almeno nei due pacchetti, ho cominciato a dodici anni"), la più celebre fotoreporter italiana, la prima europea premiata dagli americani già nel 1985 - «no, no, non chiamatemi fotografa, sono solo una persona che scatta foto» - ha l' entusiasmo di una ragazzina nel puntualizzare, polemizzare, difendere con veemenza e crudezza i suoi punti di vista, illustrare il suo lavoro come testimonianza e impegno anche civile.
Ma, come spiega lei, «per diventare bravo, bisogna essere quello che siamo: chi fa arte o scatta, deve far vibrare quello che è. Se si è cattivi si faranno foto spietate, se siamo compassionevoli, faremo foto compassionevoli».
Il New York Times l'ha inserita, unica connazionale, tra le undici donne più rappresentative del 2017.
In occasione della mostra «Letizia Battaglia, fotografia come scelta di vita», una grande retrospettiva a Venezia fino al 18 agosto, Marsilio ha pubblicato un volume antologico che raccoglie 300 scatti, alcuni dei quali inediti. Oggi a Roma, all' auditorium del museo Macro, verrà proiettato il documentario Shooting the Mafia, presentato al Sundance film festival di Robert Redford, dedicato a questa donna passionale e coraggiosa.
Lei sfoggia capelli di un rilucente color rosa, ma in passato io li ricordo anche verdi.
«Oh sì, li tenevo così nella foto della carta d' identità. Li ho avuti pure rossi. Per il futuro non escludo il blu. Un vezzo, ma la vita è un susseguirsi di colori. Niente trucco solo un po' di rossetto, niente lifting, mi piacciono le mie rughe, sto discretamente in salute, arrivata alla mia età ho una forza che non avevo quando ero più giovane, e sento di poter dire e fare quello che voglio, e di cose ne voglio fare ancora tante».
Però da fotografa ha sempre prediletto il bianco e nero.
«Vero. Mi è capitato di fare foto a colori, ma poi le ho messe via. Ho un animo essenziale, sono un poco drammatica, il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere, per contrasto, cose che il colore non rivela. E comunque non avrei mai potuto raccontare i morti di Palermo a colori, se lo immagina?».
Palermo c' è sempre, un rapporto viscerale.
«Certo! Palermo è me, e io sono Palermo. Qui sono nata, qui sono sempre tornata».
Perché se n' è allontanata?
«Da bambina perché papà era un marittimo, e ci portava in giro con sé. Napoli, Civitavecchia, Trieste durante la guerra, da cui ritornammo a Palermo con un viaggio di 14 giorni tipo carro bestiame. Poi all' inizio degli anni Settanta per mantenermi, visto che mi ero separata, salii a Milano».
Si era sposata giovane?
«Sì, e a 17 anni avevo già una figlia, la prima di tre, tutte femmine. Noi donne ci innamoriamo, ai nostri uomini diamo dedizione, che loro ripagano volendoci asservite e fottendoci, esaltando il proprio egoismo, arrivando all' indifferenza e alla violenza. Quando decisi che era finita, rifiutai perfino gli alimenti. Ma a quel punto dovevo ingegnarmi per campare, e cominciai come redattrice al quotidiano L' Ora».
Quindi alla fotografia non è arrivata perché sentiva ardere dentro di sé un sacro impulso...
«No, ci sono arrivata per fame. A L' Ora mi pagavano molto poco, mi trasferii a Milano, iniziai a collaborare con altri giornali, tra cui Vie Nuove, che era un periodico comunista.
Io portavo l' articolo, e quelli mi chiedevano: "E le foto?"».
Lo domandano anche oggi...
«Allora mi procurai una piccola macchina non professionale e comincia a scattare, ma solo perché era necessario a sostenere la mia indipendenza. Dopo tre anni, pubblicavo sulle testate più importanti, il Corriere della Sera, Il Giorno».
Ma la sirena di Palermo era irresistibile.
«L' Ora mi chiese di tornare per occuparmi del settore fotografico del giornale. Cominciai a studiare il lavoro dei grandi professionisti, e imparando e scattando, m' innamorai della fotografia».
Diventando la fotografa della mafia, anche se la mostra a Venezia e il volume di Marsilio dimostrano che il suo occhio si è posato anche altrove: gli innamorati, le donne, l' infanzia, gli animali e le processioni religiose. Con Palermo sempre a fare da scenografia.
«Certe volte mi dico: basta parlare di mafia. Non ne posso più. Parliamo piuttosto di riscatto, di bellezza, di futuro. Ma all' inizio era così. A ogni delitto correvo sul posto e scattavo, ma non avrei voluto.
Mi veniva da vomitare, continuavo a sentire quell' odore, il sangue, dappertutto, perfino dentro casa. Mi costava molto dolore. E fatica, perché in molti mi vedevano come la figlia dei fiori, una figura pittoresca vestita con colori sgargianti e con gli zoccoli. Fu grazie alle forze dell' ordine, e al commissario Boris Giuliano, che finirà pure lui ammazzato dai killer di Cosa nostra, oltre che alla qualità del mio lavoro, che vinsi le resistenze».
Come riusciva ad andare avanti ad affrontare la morte, trovandosi in mezzo a quella che lei ha definito una guerra civile tra siciliani, scatenata dai corleonesi di Totò Riina?
«Per senso del dovere, vincendo il senso di nausea. Dovevo andare oltre le mie emozioni, giravo con Franco Zecchin (suo compagno per 18 anni, ndr) sulla sua vespa per testimoniare quello che stava succedendo e condividerlo con la gente di Palermo. Scattavo molte foto, perché per il coinvolgimento emotivo mi tremavano le mani e venivano mosse o sfuocate, ma alla fine quella buona usciva sempre».
Andò così anche il 6 gennaio 1980...
«Transitammo per via Libertà, e vedemmo un piccolo capannello di persone, saranno state cinque sei, intorno a un' auto. Pensammo a un incidente, ci fermammo. Franco girò dal lato del passeggero, io da quello del guidatore e scattai infilando la macchina nell' abitacolo senza sapere sul momento di chi fosse quel corpo. E sullo sfondo un uomo con i capelli bianchi che lo sorreggeva».
sergio mattarella e il fratello piersanti ucciso dalla mafia
Una foto che ha fatto il giro del mondo. Un' immagine che, non so perché, mi ha sempre fatto pensare alla Deposizione di Caravaggio. Quell' uomo con i capelli bianchi era il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che teneva tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della regione.
«Mattarella mi infonde fiducia perché con lui lì non vedremo traffico o mercimonio tra lo Stato e la mafia come è successo in passato».
Lei è da sempre sostenitrice di Leoluca Orlando, è stata anche assessore per i Verdi nella sua giunta durante la Primavera siciliana della seconda metà degli anni Ottanta, e poi deputato regionale nella sua Rete. Eppure lui a un certo punto attaccò Falcone, che fu costretto a difendersi davanti al Csm dall' accusa di tenere i dossier scottanti «chiusi nel cassetto».
«Minchiate! Erano amici, si sostenevano l' un l' altro, e quel fraintendimento fu chiarito: non furono mai nemici. Si voleva indebolire il fronte antimafia, questa è la verità».
letizia battaglia dacia maraini
Dopo l' estate di sangue del 1992 lei se ne andò di nuovo da Palermo.
«Amore e odio, per la mia città. In quel momento volevo morire, ma per davvero. Mi rifugiai a Parigi, dove Franco aveva un monolocale da cui quasi non uscivo. Durò un anno, poi trovai la forza di tornare».
È sempre di sinistra?
«E me lo chiede? Sempre. Ho fotografato Pier Paolo Pasolini, Enrico Berlinguer. Persone che hanno vissuto con tensione civile e distacco dal potere, di cui non subivano il fascino e non avevano la vanità, come mi ha insegnato Ezra Pound».
Ma come, mi cita un fascista?
«Innanzi tutto, io non ho i paraocchi. Secondo, era un poeta, una persona m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a. L' ho conosciuto prima di diventare fotografa, e un suo verso "Strappa da te la vanità, ti dico: strappala!", è un monito che a 35 anni ho fatto mio, mentre affrontavo un percorso di analisi freudiana.
E quanto al fascismo di Pound, secondo me non capiva un cazzo, aveva una visione confusa, di ammirazione per le politiche economiche e sociali di Benito Mussolini, finì pure in manicomio, e mi dispiace che della sua figura si siano appropriate le teste rasate di CasaPound».
Ma se le chiedessi di farmi il nome di qualcuno di sinistra oggi? Che so, Nicola Zingaretti, segretario del Pd?
«Persona per bene, mi pare, ma non mi dice proprio nulla. Matteo Renzi? Ma perché, era di sinistra? Forse direi Massimo Cacciari...».
Da ultimo: perché adesso le foto di donne nude?
«Il corpo nudo femminile è pulito, sereno, autentico, senza sovrastrutture. È Palermo.
Ho questa attrazione, e so che qualcuno si chiede se per caso io non sia lesbica. Se lo fossi, di certo non lo nasconderei né mi nasconderei. I miei amanti sono stati uomini, ma sa che c' è? Voi maschi non siete soggetti poi così interessanti da fotografare
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