BETTIZA: “WOJTYLA FU TUTT’ALTRO CHE UN PAPA ‘BUONO’. FU DISPENSATORE SEVERO DEL CULTO CRISTIANO. DA GIOVANE PRETE SPREZZÒ IL NAZISMO, DA CARDINALE NON CEDETTE DI UN PALMO AL COMUNISMO E DA PAPA CONDANNÒ IL CAPITALISMO SELVAGGIO”

Enzo Bettiza per "la Stampa"

La santificazione di oggi evocherà insieme la presenza terrestre e la sacra testimonianza della eccezionale figura pontificale di Karol Wojtyla. L'evento avrà indubbiamente un peso religioso di grande portata per i cristiani credenti. Tuttavia, una buona parte anche di non credenti, polacchi ed europei, ma altresì americani, non potrà che inchinarsi evocando l'incisività storica, non solo teologica, del grande Papa polacco che per 27 anni ha guidato con rara potenza di polso e di pensiero la Chiesa e le comunità cristiane sia d'Oriente che d'Occidente.

Per molti aspetti, anche autobiografici, egli fu tutt'altro che un papa banalmente "buono"; fu anzi un Papa piuttosto duro: un maestro di fede, custode e dispensatore severo del culto cristiano, venuto dal freddo senza arrendersi o rassegnarsi mai alla sopraffazione degli "ismi" totalitari e nichilisti del XX secolo.

Nessuna delle sirene d'epoca riuscì mai a incantarlo o ingannarlo. Da giovane prete patriota sprezzò il nazionalsocialismo tedesco, da cardinale in Polonia non cedette un palmo di terreno al comunismo, e infine da papa condannò con le sue encicliche le malversazioni e i paradisi perduti, falsificati o falsificanti, del capitalismo selvaggio.

Nei giorni in cui i porporati si accingevano ad elevarlo al vertice della Santa Sede, i dirigenti comunisti russi e filorussi, conoscendone la tempra d'acciaio, s'inquietavano domandandosi preoccupati: cosa succederà in Polonia e negli altri Paesi dell'Europa centrorientale se non riusciremo a mettergli il bavaglio? Decisero perciò di calarlo anzitempo nella tomba affidando l' attentato alle mani di un funesto quanto maldestro estremista fascistoide turco.

L'attentato si compì; però riuscì solo a metà, ferendo il Papa senza ucciderlo; si riprodusse allora l'enigmatico paradosso di una solidale e alquanto anomala complicità tra il Papa, vittima scampata, e il carnefice mancato. Quasi un classico da romanzo a tesi, un po' dostoevskiano e un po' conradiano.

Di Wojtyla, oggi prepotentemente più vivo che mai, meno defunto che mai, si dovrebbe parlare come di un santo ancor sempre presente tra noi: un santo non sotterrato, appena scalfito dall'ombra di un decesso fisico tanto tormentato quanto glorioso. Qualcosa di misterioso, forse di sacro, ci costringe quasi a pensarlo e a nominarlo con verbi fissati al tempo presente e non dispersi nel passato remoto.

Qui, per sceverare i paradossi che convivevano e convivono nella personalità di Wojtyla, bisognerebbe per modo di dire contarli, dispiegarli e sottrarli alla fuga verso il finito o, meglio, l'infinito di una morte che non muore perché beatificata dalla sacra famiglia che per lui era ed è la Chiesa. Bisognerebbe bloccarli, quei paradossi, simili a fulmini dispersi nei mobilissimi cieli di un Michelangelo trionfale e un po' sinistro: bisognerebbe squarciarli, dispiegarli, decrittarli senza però distruggerne l'ultimo e nascosto senso esistenziale. Qui il mistero di chiama Wojtyla, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II. Un santo, che in un certo senso sembra accettare con un sorriso leggero il cilicio della sua pesante santità.

 

 

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