RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Paolo Colonnello e Francesco Rigatelli per “la Stampa”
Una fiera del fieno a Nembro, in Val Seriana, Bergamo, e una fiera di animali a Orzinuovi, bresciano. Nelle zone più produttive e industriali d' Italia, il coronavirus è arrivato così: attraverso la campagna, dai contadini di Codogno. Poi è diventata un' ecatombe.
E adesso bergamasca e bresciano sono le aree dove il contagio da virus infuria e miete vittime. A Bergamo non hanno più posti nelle camere mortuarie. A Brescia e provincia, 3. 096 positivi e 374 decessi fino a ieri, ospedali che scoppiano le cose non vanno meglio: è chiaro che si tratta di aree infestate, le più pericolose d' Italia in questo momento. Anche se a quanto pare i numeri sono in flessione anche lì.
Ma perché non sono state fatte subito le zone rosse?
«Noi le avevamo fortemente chieste», spiega l' assessore al Welfare, Giulio Gallera, «ma poi qualcuno ha remato contro, il governo ha balbettato e alla fine non se n' è fatto più niente». Chiudere adesso, giusto per rimanere in tema agricolo, sarebbe come chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. «Inutile», conferma Gallera, «aspettiamo i risultati di queste due settimane e poi vediamo. Domenica decideremo». Ed è chiaro che se la situazione non dovesse migliorare, saranno nuove misure e molto più drastiche di adesso.
Eppure, due mercoledì fa, la commissione tecnica della Protezione civile aveva dato parere positivo alla chiusura almeno della bergamasca.
Una volta arrivato al Palazzo Chigi però il parere non è stato recepito. E il fatidico sabato 7 marzo Conte ha deciso di blindare l' intero Paese. «In tanti sono scappati, pare che di notte qualcuno abbia anche spostato i macchinari dai capannoni», racconta Gallera. Perché una cosa deve essere chiara: da queste parti, nel bresciano, mille e trecento industrie associate, il lavoro è più di una religione. Non si discute. E allora tra le ipotesi, molto concrete, di una maggiore diffusione del contagio, qui come nella bergamasca, è che alla fine abbia prevalso la logica del lavoro e delle fabbriche da tenere aperte a tutti i costi.
Una verità parziale secondo Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia e di Officine Meccaniche Rezzatesi, bresciano purosangue. «Le aziende che potevano chiudere han chiuso tutte. Questa è una polemica sterile. E poi, aziende farmaceutiche e supermercati non sono forse aziende? Quelle per esempio è bene che rimangano aperte. E le mascherine chi le fa se non altre aziende?». E comunque, spiega sempre Bonometti, «molti hanno ridotto la produzione per tenere viva l' azienda. Chi non ha commesse o ha il mercato fermo, fa prima a chiudere».
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Conferma Giuseppe Pasini, di Confindustria Brescia: «Ci sono altre industrie che non riescono a chiudere perché sono strategiche per le persone e per le filiere internazionali e rischiano di pagare penali molto alte. Altre hanno alti standard di sicurezza». E i morti, il boom dei contagi? La verità, fanno notare a Brescia, è che il week end prima del decreto Conte, complice il bel tempo, la città si era svuotata invadendo i laghi e le montagne e trasportando il contagio ovunque. Non è insomma solo colpa delle industrie. «Stiamo raccogliendo i morti dei contagi delle settimane prima - commenta Bonometti - se si fossero adottate misure più severe prima...
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Ma è inutile piangere sul latte versato. Dal week end in poi mi aspetto risultati migliori».
Bonometti, racconta, nella sua azienda ha incentivato le ferie, ridotto il personale e incentivato lo smart working, chiuso i reparti non essenziali. Insomma, non è che gli sforzi siano mancati. «Ma abbiamo mantenuto la produzione per i clienti americani, cinesi, austriaci e tedeschi». Insomma, arriverà il giorno in cui ci dovremo risollevare e qualcuno dovrà pur aver mantenuto i contatti. «Le aziende sono metà chiuse e metà aperte».
Chiuderebbe tutto? «Inutile». Eppure è un' ipotesi che in Regione non escludono: bisognerà vedere la curva dei contagi che sembra leggermente rallentare.
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