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Giampaolo Visetti per “www.repubblica.it”
Autoritari sì, autolesionisti fino a un certo punto. Sul golf i leader rossi ci ripensano: contrordine compagni, giocare non è più reato. Mai successo, a un solo anno dalla scomunica: in Cina i green tornano calpestabili, le palestre frequentabili. Il weekend dei funzionari, assieme al loro girovita, è salvo.
Con l'arrivo della primavera, anche il partito-Stato si è svegliato: una direttiva stabilisce che si può liberamente tornare a far volare le palline e che ottantotto milioni di tesserati comunisti, tentando la buca, non devono più temere di essere arrestati.
Facce sbalordite: nell'aprile 2015 sugli appassionati del "fairway" era calata la mannaia proibizionista del presidente Xi Jinping. Tra le norme anti-corruzione, oltre al divieto di saune e karaoke, di shopping di lusso e mogli parcheggiate all'estero, era stata rilanciato anche il primo anatema rivoluzionario di Mao Zedong, presto ignorato. Il golf, definito "uno sport borghese, elitario e troppo occidentale" fu bandito dall'ex impero in quanto "vizio da milionari inventato per favorire accordi sporchi tra politici e imprenditori".
A tutti era parsa una sentenza senza appello, come il divieto di cercare sul web il toponimo "Piazza Tiananmen". Risultato: mesi di campi deserti, country club a un passo dal crac, industria delle mazze in ginocchio. Ma soprattutto: vecchia nomenclatura e nuova classe media in rivolta.
La lobbying del comunismo di mercato ha scosso perfino il comitato permanente del politburo. Domanda ufficiale: se il presidente Xi Jinping vuole giustamente che la patria diventi una potenza mondiale anche nel pallone, perché non esserlo pure nella pallina? Non parlando più di ping-pong, l'imbarazzo era evidente.
Nella storia Pechino, dopo un grande balzo in avanti, non ha mai fatto rapidamente marcia indietro. Per superare l'impasse, riabilitare il golf senza contraddire "papà Xi", le autorità hanno dovuto spolverare i più sottili sofismi tecnocratici. "Visto che il golf è solo uno sport - stabilisce l'ultima direttiva dell'agenzia nazionale anti-corruzione - non è un male in sé e non c'è nulla di giusto o di sbagliato nel praticarlo.
A patto che funzionari e iscritti al partito paghino di tasca propria". Abolito con un colpo di spugna l'articolo 87 del regolamento di disciplina, che stabiliva le pene per il "possesso di tessere del golf club", o per "l'illecita frequentazione di campi clandestini".
La propaganda, ancora scottata, questa volta esibisce prudenza. Il "Quotidiano del Popolo" si chiede incredulo se davvero i dirigenti possono riprendere a sfidarsi all'ultima buca "mentre la nazione si sacrifica per distruggere la corruzione e promuovere la sobrietà". Il quesito, per i cinesi, non è retorico.
Ognuno, fatti due conti, sa che lo stipendio del suo vicino non basterà mai a saldare i conti di un hobby che mensilmente costa come una vita da operaio. Per il potere, mentre la crescita interna continua a frenare, il problema è dunque stabilire ora cosa significa "tasca propria".
Nella Città Proibita in queste ore si dice che Xi Jinping ha voluto salvare il golf per non finire nelle barzellette dei leader occidentali, ma che lo sdoganamento del golf rafforza ancora di più la sua lotta "contro mosche e tigri".
Se "pagare di tasca propria" per un compagno onesto resta impossibile, senza cedere alla corruzione in Cina calcare il green resta un piacere proibito. I vincitori della "guerra del drop" non sono così i sempre più influenti giocatori della domenica, ma gli ormai decisivi businessmen del lunedì.
Nonostante le proscrizioni, in dieci anni i campi da golf cinesi sono quadruplicati, quelli a 18 buche sono oltre 600, ogni mese mille ettari di risaie vengono convertiti
in green, sulle fattorie sorgono hotel a cinque stelle e solo nel Guangdong i club sono 97, più che in Irlanda. Un immobiliare affare di Stato da far impallidire le censurate "stravaganze di popolo": sconveniente ormai anche per Pechino, causa mazzette, sacrificare le mazze.
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