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Michele Bocci per “la Repubblica”
Lui non si è presentato. Questa volta Francesco Schettino ha deciso di restare lontano dai riflettori e di aspettare a casa sua, a Meta in provincia di Napoli, le notizie sull’esito del processo. La telefonata del suo avvocato è arrivata intorno alle 20.35 di ieri, subito dopo la lettura della sentenza della Corte d’assise d’appello di Firenze: «Le statuizioni penali sono confermate», ha detto il giudice Grazia D’Onofrio. Cioè la condanna resta uguale a quella di primo grado: 16 anni e un mese per naufragio colposo, omicidio colposo, abbandono di incapace e mancate comunicazioni.
Inoltre, «in parziale riforma » della decisione del tribunale di Grosseto, per il comandante della Costa Concordia c’è anche l’interdizione dai titoli professionali marittimi per 5 anni. Sono state giudicati dunque inammissibili tutti i ricorsi presentati dalla difesa ma anche dalla procura e dalle parti civili. Anche la richiesta della procura generale di aumentare la pena fino a 27 anni e 3 mesi di reclusione non è stata accolta.
Ci sono volute dieci udienze e poco più di 8 ore di camera di consiglio per chiudere il processo di secondo grado a Francesco Schettino. Secondo i giudici è lui il responsabile del naufragio avvenuto alle 21.45 del 13 gennaio 2012 nel quale persero la vita 32 persone e altre 110 rimasero ferite.
Quella sera la nave della Costa Crociere andò a sbattere contro gli scogli di fronte all’isola del Giglio, ai quali sarebbe stata fatta avvicinare per fare quello che fu definito un ”inchino”, cioè un saluto alle persone presenti in porto. Per l’accusa, e ora anche per il tribunale di Grosseto e per la Corte d’appello di Firenze, fu Schettino a dare l’ordine di avvicinare l’imbarcazione alla costa.
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Mentre la nave andava verso il Giglio, lui era a cena. Salì a riprendere il comando quando la Concordia era ormai vicina agli scogli. All’ultimo istante tentò una manovra per farla allontanare dalle rocce ma non ci riuscì. Gli allarmi che chiedevano alle 4.229 persone a bordo di abbandonare la nave scattarono solo alle 22.58. Nessuno morì a causa dell’urto. Chi perse la vita affogò, oppure precipitò dentro lo scafo dopo che si era inclinato.
Il comandante non fu l’ultimo a scendere dalla nave in difficoltà, prese una scialuppa con alcuni ufficiali e arrivò agli scogli quando c’erano ancora moltissime persone a bordo. Sostenne di aver “diretto” le operazioni di soccorso da terra. Nella notte andò in un albergo a cambiarsi. Lo fermarono poche ore dopo e lo portarono in carcere. Uscì alcuni giorni dopo e da allora ha cercato di alleggerire le sue colpe scaricando la responsabilità sugli ufficiali, che non avrebbero interpretato bene le sue disposizioni. Il timoniere indonesiano, in particolare, per incomprensioni legate alla lingua non avrebbe capito i suoi ordini che avrebbero permesso di evitare l’impatto.
Schettino è stato quasi sempre presente in aula durante il processo di primo grado, svolto al teatro Moderno di Grosseto per il gran numero di partci ciili e di avvocati. Il comandante è intervenuto molte volte per raccontare la sua verità. La sentenza di condanna è arrivata a tre anni dal disastro, cioè l’11 febbraio del 2015.
Al processo di appello di Firenze, invece, Schettino non si è mai fatto vedere. «Leggeremo le motivazioni della sentenza e sicuramente faremo ricorso in Cassazione», ha detto ieri sera il suo avvocato, Donato Laino. Per il legale della Costa, Marco e Luca, «la sentenza è una copia conforme a quella di primo grado. È una sentenza equilibrata ».
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