DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Paolo Berizzi per “la Repubblica”
Se prima di coprire i 120 chilometri Padova-Bologna — forse sfruttando il passaggio in auto offerto da un amico maghrebino, forse con il treno regionale veloce che costa la metà del Frecciargento — , se prima di imbarcarsi mercoledì scorso da Bologna su un volo Turkish Airlines destinazione Istanbul con biglietto stampato da un’agenzia turistica di Piove di Sacco, Meriem Rehaily era considerata una mosca bianca — nel senso della presunta insospettabilità, non ancora del tutto verificata — è giusto che la «carta moschicida » dell’Is la stiano cercando qui.
Nella provincia delle vite “normali” bagnate dagli spritz a 2 euro e scandite dal graffio vocale dei nostri rapper convertiti alla barba islam-style. Nell’afa che arrostisce il cortile della casa bassa e gialla lambita dai campi della famiglia Rehaily in via Monte Grappa.
Le persiane rosse serrate. Un salterello. Il triciclo del più piccolo dei tre fratellini, una bicicletta, altri giochi. Il padre Roudani è ossa e disperazione, ripete le parole che ogni padre di buon senso rivolgerebbe in questo momento a una figlia 19enne folgorata dalla propaganda del Califfato fino a sparire («vado al mare con le mie amiche», dice prima di uscire di casa) e raggiungere la Siria per combattere il Jihad. «Meriem torna, non avere paura, non hai fatto niente di male. Tutti ti vogliamo bene, la mamma sta male per te».
Come se certe strade prevedessero anche un ritorno immediato, una quota di ripensamento. «Non può essere successo quello che leggiamo sul giornale, Meriem non è questo tipo di persona», stringe le spalle il padre. Meriem terrorista? Aspirante foreign fighter pronta a imbracciare il kalashnikov «contro i miscredenti che infangano il nome di Allah »? Forse prima è stata altro, Meriem: una mosca bianca. Rimasta incollata lì da dove poi si è staccata sei giorni fa per partire e tornare chissà quando.
Gli uomini dell’Antiterrorismo la chiamano «carta moschicida». È la piattaforma social dei reclutatori dello Stato islamico. Ci rimangono impigliati, anche in un sol volo, ragazzi come Meriem. Vanno a sbattere giovanissimi cresciuti qui, all’occidentale. Attirati dall’«ego ipertrofico veicolato dagli uomini marketing del Califfo ». Altri cinque “sospettati” — quattro maschi e una femmina, è delicata materia di indagine, — sono sotto «stretta osservazione».
Pure loro, dopo Meriem, e come Maria Giulia Sergio detta Fatima, a rischio hijrah. L’emigrazione verso le terre del jihad. Meccanismo e regole di ingaggio sono note: gli inviti fluviali nei forum dei siti specializzati, le chat di Skype, i messaggini via Whatsapp. Da un numero turco sono partiti nelle ultime ore inviti a una, forse due amiche marocchine di Meriem.
Nel profilo del mittente c’è un uomo che bacia la bandiera nera dell’Is e, accanto, questa frase: «Ad una terra dove posso combattere sono andato e nei miei occhi c’è odio verso i miei avversari... e nella mia strada sono giunto in una terra islamica (invito anche a voi fratelli) ». Può averli forniti lei, ai facilitatori islamici dell’Is, contatti di ragazzi nordafricani residenti della zona da reclutare on line e spedire in Siria?
Il Mattino di Padova riporta la testimonianza di un’amica di Meriem, ex compagna di scuola. Anche lei marocchina, anche lei 19enne, anche lei pronta a raccontare dietro garanzia di anonimato. «Sono terrorizzata. Se mi hanno cercata sanno chi sono e dove abito». Possibile Meriem sia già diventata, nel giro di neanche una settimana, un supporto prezioso per cercare di riempire il serbatoio jihadista italiano? La ricorda così l’amica.
«Una brava ragazza, forse sta solo cercando una sua identità. L’ultima volta l’ho vista un anno fa per il Ramadan e non ha fatto altro che parlarmi della Siria e del fatto che sarebbe stato giusto andare lì a combattere». La Siria. Il velo. la lettura dei forum intrisi di odio contro i nemici di Allah. Una ragazza di Campolongo maggiore che — secondo l’ex compagna di scuola — le avrebbe fatto il «lavaggio del cervello sull’Is». Facciamo un passo indietro.
Quando papà Roudani entra in Italia dal Marocco, Meriem ha 9 anni. Padre di famiglia zero indolenza: prima parcheggiatore, poi operaio alla Blue Box di Cantarana di Cona nel Veneziano, condizionatori. La figlia maggiore cresce, diventa graziosa, non vuole rinunciare a divertirsi e a scuola, all’istituto tecnico De Nicola, Piove di Sacco, arranca, perde un anno, ne rischia un altro.
Ogni tanto “impicca” e va a Padova in pullman a fare le vasche. Si scontra coi genitori ma ha tutto: telefonino, computer, vestiti all’occidentale. «È vero, una volta l’ho scoperta in giro, non era andata a scuola. Mi sono arrabbiato. Ma non era scappata di casa».
Cuore di padre, pudore privato. Nei cassetti della stazione dei carabinieri di Codevigo c’è una denuncia — ora allegata al dossier inviato al Ros di Padova e alla Procura distrettuale di Venezia — che dice altro: era stata lontana da casa un giorno e una notte, Meriem. Crisi. Sospetti. Mosse che forse andavano interpretate e intercettate prima. Nei mesi dirada i post su facebook. Fino a chiudere il profilo. Un classico di chi ha in animo il progetto di fuga verso lo “Stato perfetto”. Una capace di mollare di colpo la famiglia, gli amici, la scuola, i pomeriggi al centro commerciale a provare le Nike, qualche rara festa.
A Arzergrande la crisi ha costretto le fabbriche a produrre tessuti a scartamento ridotto. La vita si è spostata su Piove di Sacco. Finita la scuola, il sabato e la domenica si va al mare: Caorle, Bibione, Jesolo. Lei, Meriem, no, la sua hijrah è altrove. La spiaggia è una scusa per darsi alla macchia.
Aveva il chiodo fisso e nessuno si era mosso. «Basta stare a guardare, combattere in Siria contro gli oppressori occidentali. A voi fratelli musulmani». È uno degli ultimi post prima del seppellimento del profilo fb. Profilo che gli investigatori hanno ripescato e stanno spolpando a ritroso. A partire dagli ultimi contatti. Quelli decisivi.
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