DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Alessandro Fulloni per corriere.it - Estratti
Lo venne a sapere così, dalla madre Angela, una sera a cena con lei nel 1942: «E se tuo padre fosse Benito?». La giovane, Elena Curti, all’epoca ventenne, sgranò gli occhi. Lei «era perfettamente persuasa» che il suo vero genitore fosse Bruno, ex squadrista milanese che «non vedevo da anni».
Certo, il Duce era una presenza costante in quella famiglia: telefonava, inviava lettere e «mamma me ne parlava sempre». Ma il dittatore non l’aveva mai riconosciuta come propria figlia, sebbene Mussolini l’avesse avuta accanto a sé nell’ultimo, drammatico, viaggio lungo il lago di Como nell’aprile 1945.
Nuovi dettagli su questo rapporto tra il padre e la sua figlia segreta emergono all’Archivio di Stato di Como dove sono stipati centinaia di fascicoli, in via di progressivo riordino, che contengono gli atti dei processi per collaborazionismo ai fascisti di Salò.
Ci sono anche le carte riguardanti Elena Curti, morta due anni fa, quasi centenaria. Sì, una fascista convinta, ma pure amica di giovani partigiani che, catturati dalle Brigate nere, lei tira fuori di prigione. Poi saranno proprio loro a testimoniare a suo favore, firmando delle dichiarazioni giurate.
elena curti e benito mussolini
Se la posizione della ragazza, in carcere dal 28 aprile 1945 dopo essere stata catturata dai garibaldini, viene archiviata è soprattutto grazie all’ingombrante parentela, sino a quel giorno nient’altro che un gossip. Nel giudizio datato 10 settembre 1945 il procuratore di Como Antonio Tribuzio — un bravo avvocato nominato dal Cln lariano — scrive che sì, Elena si trovava nella stessa autoblindo con Mussolini, in quella disperata fuga verso chissà dove e terminata a Dongo, ma «era più per il desiderio di rivedere il padre naturale» che non per «raccomandargli un ministro delle Corporazioni caduto in disgrazia». L'addebito per cui era finita a giudizio.
Non solo. «L’essersi trovata nell’autocolonna» dei gerarchi che scappavano «nelle circostanze molto note» «non costituisce delitto» e nemmeno «nell’atteggiamento della giovane si riscontrano altri fatti che costituiscono reato di collaborazionismo con il tedesco invasore».
Insomma, anche il magistrato ritiene veritiero il fatto che Mussolini fosse davvero il padre di quella ragazza. Tanto che nel dispositivo che la scagiona dalle accuse ripete che «mancano le prove che nei vari colloqui tra l’ex duce e la figlia naturale ci siano state confidenze lesive degli interessi degli italiani».
Il fascicolo è sorprendente. Intanto per le testimonianze a favore di Elena, allora studentessa di Scienze politiche. Sono tre, tra cui quella di un partigiano suo amico, Franco Valerio, arrestato perché in casa aveva «materiale di propaganda». Ma in carcere riceve la visita di Elena che lo «istruisce nel come comportarmi per l’opera di salvataggio» per cui interviene Alessandro Pavolini, capo delle Brigate nere. Le circa 20 pagine di interrogatorio sono uno stream of conscioussness giudiziario.
La figlia del Duce racconta di aver salvato «altri cospiratori», fornendo «informazioni propizie al Cln». Ma quando lo stesso Valerio le chiede altre notizie lei lo stoppa: «per la mia coscienza sarebbe stato un tradimento».
C’è pure da «salvare un ebreo» e così «io escogito lo stratagemma» di dire al padre che «è il mio fidanzato». Lui si «meraviglia» «e prega mia madre di persuadermi a rinunciare» dato «che di giovanotti ariani ce n’erano tanti». Quando incontra il Duce la prima volta a Salò, trovandolo «d’aspetto migliore rispetto a Roma», gli dice: «magari ti sei dato alla cocaina». Al che papà sgrana gli occhi: «Non conosco questa droga» e semmai sono «i tedeschi a curarmi bene».
La figlia segreta del dittatore aveva, oltre a un discreto altro drappello non riconosciuto, altri cinque fratelli «ufficiali», quelli dati alla luce da donna Rachele, la moglie di Mussolini: vale a dire Edda, Vittorio, Bruno, Romano e Anna Maria. Curioso come tra questa prole, legittima e non, fu la sola Elena a restare accanto al Duce sino all'ultimo. Edda era già riparata in Svizzera;
(...)
Nei verbali, Elena Curti mente quando dice di essersi trovata «per caso» nella blindo con il padre. Ma è vero tutto il resto. Ascolta Clara Petacci gridare: «Duce salvatevi!». Lui raggiunge il camion dei tedeschi: «Mi fido più di loro che degli italiani». Quando i garibaldini la catturano, la rapano a zero. Quattro mesi di carcere, poi caso archiviato.
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