DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Enrico Vanzina per “il Messaggero”
Scrissi qualcosa di simile trent' anni fa. Ma il tema è ancora attualissimo e vi ripropongo il concetto. Molti di noi hanno passato delle terrificanti nottate in finestra ad aspettare i figli che fanno tardi e non telefonano. Anche a me è capitato. Stando da tutte e due le parti della famigerata finestra.
Da ragazzo, ho fatto disperare mio padre e mia madre rientrando a casa alle quattro di notte. O non rientrando affatto. Di solito, quando non rientravo, c' era una ragione precisa: avevo rimorchiato una. E quindi, per me, si trattava di una nottata divertentissima. Della quale, però, pagavo le terribili conseguenze al mio rientro. Cazziata tremenda e punizione.
A quei tempi (non c' erano i cellulari) mi chiedevo come mai i miei genitori, che di solito dormivano come due ghiri, si svegliavano immancabilmente quando facevo tardi e mi aspettavano disperati in finestra.
Crescendo ho capito che nel cervello dei genitori è nascosta una specie di sveglia elettronica che trilla ogni volta che i figli tardano. Quando rientravo a casa, papà urlava: «Cretino, se fai tardi almeno avverti!». Ed io rispondevo: «Papà, io non immagino che farò tardi alle dieci di sera!... Mi accorgo che sto facendo tardi alle tre di notte, quando è già tardi!... Ma a quell' ora voi state dormendo, perché dovrei svegliarvi?».
Secondo me era un ragionamento che non faceva una piega. Ma quando poi in finestra ci sono stato io, non l' ho più pensata così. Quando si fa tardi, si avverte. Anche alle tre di notte. Passare la nottata in finestra è un' esperienza terribile.
Perché mentre sei lì, ad aspettare un figlio che non torna, l' idea di comportarti come si comportavano i tuoi genitori ti umilia. Ma non c' è niente da fare. Passano i minuti, le ore. E tu stai sempre lì, a fissare la strada dove continuano a transitare solo camion della spazzatura, vigilantes e nottambuli col cane al guinzaglio. D' estate la faccenda è innocua, fa caldo.
Ma d' inverno sono cavoli amari. Con il vetro chiuso si vede male la strada. Bisogna proprio affacciarsi. Così, sopra al pigiama e la vestaglia, t' infili il loden. E maledici il momento in cui hai regalato a tuo figlio il motorino. Cominci ad avere brutti presentimenti. Telefoni ai suoi amici. Che non sanno niente. O lo sanno e lo coprono.
Allora chiami gli ospedali.
Dove un usciere insonnolito ti dice: «Qui nun s' è visto nessuno con quel nome... Però, sta notte, con tutti gli incidenti che ce so' stati magara m' è sfuggito». E tu ricorri ad affacciarti in finestra col cuore e con i denti che battono a mille.
Nemmeno per un attimo ti sfiora l' idea che tuo figlio possa stare insieme ad una ragazzina a pomiciare. Finalmente, all' alba, lo vedi spuntare sul motorino in fondo alla strada.
Ti sembra di vedere arrivare il 7° Cavalleggeri. L' assedio dei brutti pensieri è finito.
Tua moglie ti dice: «Ti prego, tiette!». Ma tu non ti tieni. Gli molli una cinquina ed urli: «Perchè non ci hai telefonato, imbecille?!». E lui risponde piagnucolando: «Papà non m' avevi fatto la ricarica». Altro ragionamento che non fa una piega. E così, in questa storia di ansie, polmoniti e paranoie, va a finire che l' unica a guadagnarci è la Tim.
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