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TEVERE, UN FIUME DI SENZATETTO - ACCAMPATI SULL'ARGINE, SOTTO I PONTI, IN CASETTE DI LATTA, GIACIGLI DI CARTONE, LA VITA DISPERATA DEL POPOLO DEI BARBONI DI ROMA CAPITALE

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Concita De Gregorio per "la Repubblica"

Fotografie di Max Rossi/Reuters

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Conosco bene una famiglia che vive a Roma, e vive qui. In una di queste case di cartone e plastica, sotto il ponte che va dal centro al quartiere Prati.

 

È una famiglia italiana, padre madre e due figli, e non è affatto una rarità. Ce ne sono molti, di italiani, sul fiume. Non che la nazionalità faccia differenza, certo, ma magari uno non ci pensa, non ci crede. Stranieri, si immagina distrattamente passando in auto di sopra.

 

Miserabili, derelitti, persone sole. Invece no. Conosco questa famiglia da molto tempo, era la metà degli anni Duemila quando questo giornale mi chiese di andare e raccontare chi vive sugli argini del Tevere. Nella Cloaca Massima, sotto il Gasometro, al Flaminio. Fra i primi che incontrai c’era Federico. Giocava disegnando piste per terra. Ci mettemmo a parlare e arrivò il padre, teneva per mano una bambina molto piccola. Marco, il padre.

 

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Si era separato dalla moglie, che dopo qualche tempo gli aveva portato a casa i bambini ed era scomparsa. Andata via, sparita. Vivevano a Torre Angela, all’epoca. Lui aveva perso il lavoro, qualche tempo dopo, e aveva paura che i servizi sociali gli portassero via i figli. Si erano rifugiati prima in una casa occupata dove lui ha conosciuto Myriam, la sua attuale compagna.

 

Poi una catena di sfortune, che come ciascuno sa arrivano trainate le une dalle altre. Un giorno lui ha costruito un rifugio di cartone e compensato e ci ha portato tutti, sotto il ponte. Myriam lavora in una famiglia come domestica, i bambini vanno a scuola, Marco va ogni giorno in un grande deposito di autobus dove i caporali chiamano al lavoro a cottimo, la mattina.

 

Guadagnano, ma non abbastanza per prendere una casa in affitto. E poi ormai, mi dice Myriam, stanno bene lì. Bene è un concetto molto relativo. Non c’è acqua, per esempio, se non quella delle taniche. Ed è sempre fredda, naturalmente.

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L’inverno di più. Non c’è luce se non quella che arriva dai barconi dove si fanno le feste, e dalle finestre delle case di sopra, dai fanali delle auto. Le lanterne, certo. Un piccolo gruppo elettrogeno che funziona a momenti. Ci sono gli animali, la notte, specialmente topi.

 

Molto grandi, ma i bambini hanno imparato a difendersi. Persone ubriache e spesso violente, ma scendono dalla strada e risalgono, anche quello è un pericolo che si impara a evitare. Non vivono lì, quelli che fanno paura. Arrivano e se ne vanno. C’è grande rispetto, mi dice Marco, fra chi vive sul fiume. Ci si aiuta, tutt’al più ci si ignora. Molti sono uomini soli, è vero, e molti stranieri. Ma quelli passano. Si fermano un po’, poi passano.

 

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Gli abitanti dell’argine sono una comunità stanziale e si conoscono tutti. Il mondo di sotto. Delle ombre di Kentridge, l’artista sudafricano che ha dipinto il murale, Marco e Myriam hanno sentito dire ma ancora non l’hanno visto. È lontano, sull’altro argine. È una cosa che piace ai ricchi, e ai turisti. Però ne hanno sentito parlare e prima o poi ci porteranno i bambini. Una domenica mattina, magari, che gli altri giorni c’è scuola.

 

La vita dei senzatetto, privi di acqua calda e luce a parte quella che arriva dai barconi. L’enorme graffito dell’artista sudafricano? “Una cosa per i ricchi, ma prima o poi una domenica lo andremo a vedere”

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