DAGOREPORT - DOPO APPENA TRE SETTIMANE ALLA CASA BIANCA, TRUMP HA GIA' SBOMBALLATO I PARADIGMI…
Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera”
Ritirandosi, l'Isis lascia terra bruciata. Dà fuoco ai campi di sterpaglia secca, facili da accendere, come ben sanno i contadini abituati a lavorare d' autunno. Incendia abitazioni, fattorie, distributori di benzina e piccoli carretti carichi di taniche di carburante sparsi nella campagna. Colonne di fumo nero si librano nel cielo.
L' orizzonte è offuscato, l' aria inquinata, si aggiunge sporco allo sporco. «Il fumo li nasconde ai droni e agli elicotteri della coalizione alleata. Sotto la sua protezione i jihadisti del Califfato piazzano le cariche esplosive, le mine anti uomo, nascondono dietro i muri le loro auto kamikaze pronte lanciarsi contro le nostre colonne», dicono i soldati peshmerga (i battaglioni curdi nell' Iraq settentrionale), legandosi fazzoletti scuri attorno al viso. In alto sfrecciano i jet della coalizione guidata dagli americani, con una forte partecipazione canadese. A terra lo sferragliare dei tank, i tremolii del suolo al loro passaggio, l' eco di esplosioni e raffiche.
Ma è proprio tutto questo fumo a falsare le percezioni e rendere più drammatico lo scenario di guerra, molto più di quanto non sia in realtà. Rumori, la polvere sollevata dai gipponi sui tratturi bonificati dalle mine, la linea del fronte muta di ora in ora. «L' offensiva per liberare Mosul è cominciata lunedì all' alba. Sono trascorse poco più di 24 ore. E noi siamo avanzati per una quindicina di chilometri.
Ma non ci facciamo illusioni. Sino ad ora sono state solo scaramucce. Le vittime appaiono relativamente poche. Gli uomini di Isis agiscono con tattiche da pura guerriglia, si muovono veloci in gruppetti di tre o quattro, colpiscono e scappano. Non ci sono scontri frontali, solo rapide imboscate di un nemico elusivo. Il peggio deve ancora venire. Sarà nella cerchia urbana, nella lotta strada per strada, casa per casa, che si determinerà davvero la battaglia per Mosul», ci spiegava ieri a mezzogiorno il 32enne Harar Salar, capitano della Quarta brigata delle unità Zerevan, posizionata su di una collinetta dominante il villaggio di Tarjallah.
Mosul è circa 18 chilometri più avanti. Meno di 60 alle nostre spalle si trova Erbil. Per arrivare alle prime linee abbiamo attraversato un effimero ponticello di fortuna sul fiume Zab, costruito sulle rovine di quello distrutto nel 2014. Sono regioni ben conosciute. Nel giugno di due anni fa furono il teatro della sconfitta catastrofica dell' esercito regolare iracheno. Uno sbandamento epocale.
Lo stupore del mondo per eventi che sembravano cronache di orrori medioevali: donne e bambini rapiti, decapitazioni seriali, prigionieri massacrati nel deserto, ragazze yazide vendute al mercato delle schiave sessuali, cristiani costretti alla conversione con la forza oppure a pagare una tassa in vigore secoli e secoli fa, chiese bruciate, musei e siti archeologici devastati. Su questa stessa strada avevamo assistito alla fuga di un' umanità violata e impotente di fronte alle brutalità dei radicali islamici. A fine giugno Abu Bakr al Baghdadi si autoproclamò «Califfo» proprio nella moschea centrale di Mosul. Pareva invincibile.
Ora non più. Se un elemento netto si può cogliere tra le colonne che dalle zone curde attaccano Mosul è il senso di baldanzosa rivalsa. Oggi si avanza, i giorni dell' Isis sono contati, presto la capitale irachena del Califfato sarà conquistata. C' è stato ovviamente un riarmo generale. I Peshmerga parlano con entusiasmo del «Milan», un missile anticarro tedesco che pare sia in grado di colpire con precisione e distruggere le autobomba. Il 24enne Alì Abdelrahman racconta dell'«ottimo lavoro» degli istruttori militari della Nato che lo hanno seguito negli ultimi mesi. E specialmente di «Roberto», un ufficiale italiano che ha insegnato a lui e alla sua unità le strategie antiguerriglia.
L' incertezza prevale piuttosto sul dopo. «Nessuno sa bene cosa avverrà della maggioranza sunnita della popolazione di Mosul. Quanti di loro stavano davvero con l' Isis? Quanti ne sono invece ostaggi o collaboratori riluttanti? In verità non lo sappiamo e tutto ciò costituisce una gigantesca ipoteca politica», ci dice una vecchia conoscenza tra i diplomatici occidentali che da anni lavorano a Erbil. Si ipotizza oltre un milione di profughi.
Vengono allestititi campi di tende. Il fatto che siano solo poche migliaia sino a ora è così spiegato: l' Isis minaccia di uccidere chiunque cerchi di fuggire. Propaganda e classica confusione delle notizie in guerra vanno a braccetto. Sostiene in modo sorprendentemente diretto Ahmed Meithan, sergente 26enne della Al Furqa al Dhabbiah, traducibile come «L' Unità Dorata», il fior fiore delle forze speciali irachene, mandate specificamente dai comandi di Bagdad per mettersi alla testa delle colonne che prenderanno il centro della città.
«Sono oltre tre mesi che ci addestriamo per questo compito. Abbiamo unità simili alla nostra anche a sud e ad est. Militari curdi, milizie sunnite e soprattutto milizie sciite dovranno evitare di entrare nel cuore di Mosul. Lo faremo invece noi, che siamo soldati iracheni, sciiti o sunniti non importa, abbiamo ordini precisi per risparmiare la popolazione ed evitare scontri settari», spiega Meithan.
Con un' aggiunta: «Al momento il nostro attacco a tenaglia mira a guadagnare territorio e isolare Mosul. In meno di due giorni abbiamo liberato una ventina di villaggi, molti dei quali curdi. Ci stiamo avvicinando a quelli cristiani. Ma, una volta dentro Mosul città, la sfida sarà più politica che militare. Dovremo guadagnarci la fiducia della popolazione. E sarà molto complicato. Ci sono partiti, minoranze, interessi diversi ed opposti in gioco».
Un esempio di tale complessità? L' ex governatore di Mosul, Atheel Al Nugiaifi, che pure tanti accusano di essersi arreso troppo velocemente nel 2014, grazie all' aiuto della Turchia - che ha posizionato circa 2.000 soldati nel villaggio turcomanno di Bashiqa poco più a nord di qui - ha ora creato una milizia sunnita forte di oltre 4.500 uomini. Si chiama «Hashd Watani» (Mobilitazione nazionale). I peshmerga l' hanno accettata di buon grado come alleata.
Ma per il governo di Bagdad è da considerarsi illegale e una violazione della sovranità irachena. Alcune unità della Brigata Dorata fanno da avanguardie alle colonne ferme al bivio di Karamlesh, presso i grandi villaggi cristiani di Bartalla e Hamdanniya, ancora nelle mani di Isis. I suoi combattenti appaiono disciplinati. Divise nere, ben equipaggiati. Il meglio degli oltre 30.000 uomini in armi impegnati nella regione.
A differenza del passato, per esempio nelle battaglie contro i quartieri sunniti di Bagdad, o quelle per Tikrit e Falluja nell' ultimo anno, quando si era assistito a saccheggi ed esecuzioni sommarie. In molti casi la sfida contro Isis aveva finito per rivelarsi un boomerang, portando nuovi simpatizzanti alla causa dei jihadisti sunniti. Oggi invece i soldati attendono ordini al riparo dei gipponi. Tra loro si coordinano via radio e con i telefoni portatili. La devastazione nei villaggi però appare disarmante. Tante abitazioni ridotte in macerie, linee elettriche interrotte, canali dell' irrigazione trasformati in trincee e fortilizi, strade bloccate dai crateri.
Occorre fare attenzione alle cantine, spesso sono collegate tra loro da tunnel, potrebbero ancora nascondere kamikaze. Le unità peshmerga assieme a quelle regolari arrivate dalla capitale entrano con lenta circospezione. Le mine-trappola sono la minaccia più continua. Noi stessi ne abbiamo viste a decine sui cigli della carrozzabile. Nessuno si avventura sui tratturi non asfaltati senza prima aver ben controllato. Non si vedono civili. Le vie sono deserte, le abitazioni abbandonate, negozi e uffici sbarrati.
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