DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Marianna Aprile per Oggi - www.oggi.it
Trent’anni di insabbiamenti, depistaggi, falsi colpevoli, testimoni prezzolati, documenti spariti. Tre decenni di richiesta e ricerca di mandanti ed esecutori dell’agguato con cui il 20 marzo 1994 furono uccisi a Mogadiscio, in Somalia, la reporter del Tg3 Ilaria Alpi e il collega cineoperatore Miran Hrovatin. Trent’anni di processi, tentativi di archiviazione, una commissione parlamentare d’inchiesta (dal 2003 al 2006), un finto colpevole, testimoni inattendibili.
Ma soprattutto di instancabile battaglia civile portata avanti dai genitori di Ilaria Alpi, Giorgio e Luciana, morti (nel 2010 e nel 2018) senza aver avuto risposte, e di Patrizia Scremin, moglie di Miran e madre del loro piccolo Ian, che nel 1994 aveva solo sette anni. Nella filigrana di cui è tessuta questa vicenda si scorgono somiglianze con altre, precedenti e successive, accomunate dall’indicibile baratto di verità e giustizia con convenienza e connivenza.
Ilaria e Miran muoiono a 32 e 45 anni, poco lontano dall’hotel Amana, a Mogadiscio nord. Sono su una Toyota quando un commando di uomini armati di Kalashnikov scende da una Land Rover e li colpisce. Entrambi alla testa, entrambi da una distanza ravvicinata: un’esecuzione che a lungo è stata raccontata come un tentativo casuale di furto o rapimento, complice il ritardo con cui furono trasmessi documenti e ascoltati testimoni. Dei due giornalisti, insieme, ci sono poche immagini perché era la prima volta che lavoravano in coppia in Somalia. Per Hrovatin era anche la prima volta lì: fino a quel momento era stato inviato per lo più a coprire le guerre nei Balcani. Per Alpi la prima volta a Mogadiscio era stata invece nel dicembre del 1992. Da allora, ci aveva trascorso quasi duecento giorni, per documentare la guerra civile scaturita dalla caduta del dittatore Siad Barre e per indagare
Per Miran era la prima volta in Somalia, aveva sempre seguito la guerra nei Balcani. Per Ilaria era la settima. Non avevano mai lavorato insieme sull’operato della missione Restore Hope, in cui erano impegnati anche militari italiani. Accanto a lei c’era sempre stato un altro operatore, Alberto Calvi, che quella volta lì, l’ultima, si era rifiutato di partire ritenendo le risorse messe a disposizione dalla Rai non sufficienti a garantire gli standard di sicurezza.
Per il racconto della Somalia Ilaria aveva sviluppato una passione. Quella per il giornalismo era invece nata alle scuole medie, scrivendo per il giornalino di classe. Erano soprattutto gli esteri ad appassionarla, e così, dopo una laurea in Lingue orientali alla Sapienza di Roma, Alpi passa tre anni al Cairo, in Egitto, perfezionando il suo arabo e, intanto, inviando corrispondenze e a L’Unità. Sono i suoi genitori a convincerla a tentare il concorso per entrare in Rai. Lo vince e, dopo un breve periodo a Raisat, passa alla redazione esteri del Tg3 di Sandro Curzi.
In Somalia Ilaria e Miran avevano raccolto prove su un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Africa che sfruttava (anche) la cooperazione italiana. Che questa fosse la ragione per cui sono stati uccisi le loro famiglie lo capiscono presto, ma bisognerà aspettare 20 anni per una conferma nei documenti.
Come una nota del Sismi (desecretata, assieme ad altre migliaia di pagine, nel 2013) in cui si legge di armi trasportate dalle truppe italiane assieme ad aiuti umanitari. In quelle pagine si legge anche che i mandanti degli omicidi dei due giornalisti vanno individuati tra militari somali e cooperazione. A suggerirlo fin dal primo momento ci sarebbero però già stati indizi come la sparizione, dopo gli omicidi, dei block notes e delle videocassette sugli ultimi giorni di lavoro di Ilaria e Miran.
Quelli che più si erano concentrati su affari illegali tra Italia e Somalia dopo l’intervista, il 15 marzo 1994, ad Abdullahi Moussa Bogor, sultano di Bosaso. Di quella conversazione abbiamo 20 minuti, ma Bogor ha raccontato che era durata un paio d’ore. E a guardarla (si trova in Rete) si ha la sensazione che quei 20 minuti siano sezione di un girato più lungo: non hanno incipit né frasi di commiato, iniziano e finiscono a schiaffo.
La direzione indicata dalle parole di Bogor viene però ignorata da chi indaga, al punto da portare in carcere un somalo che, dopo 17 anni di galera, sarà scagionato con formula piena e risarcito con 3 milioni di euro. Si chiama Omar Hassam Hashi e a indicarlo come l’esecutore materiale dell’omicidio dei due giornalisti sono, nel 1998, Sid Abdi (autista di Ilaria e Miran), e Ali Ahmed Ragi, detto Gelle. Hashi e Abdi arrivano in Italia nel 1998 con un gruppo di somali disposti a testimoniare contro i militari italiani accusati di torture (a far scoppiare il caso era stata un’inchiesta di Panorama del 1997): Hashi come testimone, Abdi non si sa bene in veste di cosa.
Quando Abdi accusa Hashi di essere l’assassino dei due giornalisti, Gelle lo segue a ruota. Gli inquirenti italiani decidono di credere a entrambi. Abdi ritratta più volte, Gelle sparisce, Hashi viene condannato a 26 anni. Li avrebbe scontati tutti se una giornalista di Chi l’ha visto? nel 2015 non avesse rintracciato Gelle e non si fosse fatta confessare che quelle accuse finte erano state comprate «dagli italiani». Di schiaffi colleghi, amici e familiari di Alpi e Hrovatin ne hanno incassati tanti. Al punto che nel 2014, dalle pagine di Oggi, Luciana Alpi si disse «schifata dalla giustizia».
Tra omissioni e finte verità sono passati 30 anni e la storia di Miran e Ilaria è già così lontana da rischiare di essere ignorata da un’intera generazione. Per scongiurarlo si portano avanti iniziative che raccolgono la richiesta di giustizia urlata per anni da Giorgio e Luciana Alpi e da Patrizia e Ian Hrovatin. I cui nomi si aggiungono a quello di Ilaria Cucchi, Paola e Claudio Regeni e dei familiari delle vittime delle stragi di Ustica, Bologna e altre storie divenute geografie dell’ingiustizia. Secondo uno schema ricorrente, in cui alle vittime si impone la pena accessoria di farsi carico della dignità del Paese.
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