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IL LAVORO NERO CAUSA MORTI BIANCHE – DEI TRE OPERAI DECEDUTI VENERDÌ SCORSO A NAPOLI PER IL RIBALTAMENTO DI UN MONTACARICHI, DUE NON ERANO REGOLARMENTE ASSUNTI DALLA DITTA PER CUI LAVORAVANO – MA NON SONO UN CASO ISOLATO, ANZI: SI STIMA CHE IN ITALIA SIANO TRA I TRE E I QUATTRO MILIONI LE PERSONE IMPIEGATE “IN NERO” – UN FENOMENO CHE RIGUARDA PIÙ GLI ITALIANI RISPETTO AGLI STRANIERI, ANCHE PERCHÉ CHI HA UN PERMESSO DI SOGGIORNO DEVE AVERE UN CONTRATTO PER MANTENERLO…
Estratto dell’articolo di Nina Fresia per “la Stampa”
TRE OPERAI MORTI A NAPOLI PER IL RIBALTAMENTO DEL CESTELLO MONTACARICHI
I tre operai morti a Napoli per il ribaltamento di un montacarichi purtroppo non sono un caso isolato. Due di loro, vittime del lavoro sommerso, non erano regolarmente assunti dalla ditta per cui lavoravano.
Sebbene siano difficili da monitorare, in Italia si stima che siano tra i tre e i quattro milioni i lavoratori impiegati in nero. Un dato enorme se paragonato ai quasi 18 milioni di lavoratori subordinati: il numero di irregolari vale poco più di un quinto dei lavoratori dichiarati.
Tra i settori in cui il lavoro in nero è più diffuso c'è quello delle costruzioni, che nei primi cinque mesi del 2025 risulta il più colpito da decessi in occasione di lavoro. Ma a essere coinvolti sono anche agricoltura, commercio, turismo e il lavoro domestico.
«Spesso, facendo riferimento a categorie ormai sfumate, si pensa che il lavoro sommerso riguardi soprattutto i cittadini stranieri. Invece sono di gran lunga più gli italiani a essere coinvolti nel nero, perché chi ha un permesso di soggiorno deve essere occupato regolarmente per mantenerlo», spiega il professor Vincenzo Ferrante, avvocato nello studio Daverio&Florio, docente universitario e direttore dell'Osservatorio sul lavoro sommerso e avvocato nello studio Daverio&Florio.
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TRE OPERAI MORTI A NAPOLI PER IL RIBALTAMENTO DEL CESTELLO MONTACARICHI
Secondo l'esperto, il fenomeno del lavoro in nero in Italia in passato era giustificato con le troppe lentezze burocratiche. Oggi non è più così: «A pesare è la perdita di competitività del Paese nei settori di punta, che a cascata si avverte in tutta la filiera. Il lavoro qui è spesso poco produttivo.
Ma conta anche la precarizzazione dei rapporti: se il rapporto di lavoro è troppo breve non vale la pena formare un nuovo assunto. E la mancanza di un adeguato addestramento porta ai tanti incidenti che si verificano i primissimi giorni di lavoro».
Per Ferrante, però, non si può dire che la questione sia stata trascurata dalle istituzioni: «C'è stato un importante rafforzamento dell'ispettorato del lavoro, che negli ultimi tre anni è stato dotato di nuovo personale con 5 mila assunzioni. Ed era necessario: questo ente, articolazione del Ministero del Lavoro, era ridotto a pochissimi ispettori all'inizio del 2000».
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Eppure le novità introdotte non sembrano avere riscontro nei numeri. È vero che la media complessiva del numero di infortuni in Italia risulta più bassa di quella europea, ma gli incidenti mortali rimangono decisamente più elevati. È però probabile che molti infortuni non fatali non vengano dichiarati, alterando quindi il primo dato.
«I dati spaventosi hanno portato a una forte mobilitazione, anche in termini di investimenti. Veniamo da decenni di trascuratezza: ci sono carenze che non possono essere colmate in poco tempo», aggiunge Ferrante.
Che conclude: «Dovremo ancora aspettare per vedere gli effetti positivi dell'attuale quadro normativo. Ma non possiamo fermarci: è chiaro che bisogna continuare a sviluppare le funzioni di vigilanza e controllo».
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