DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Articolo di Anabel Hernandez pubblicato da “il Venerdì”
Triángulo Dorado (messico del nord), località segreta. Sono quasi le otto di sera e il vento gelido di gennaio colpisce il viso come uno schiaffo. La penombra è interrotta dalla debole luce di un lampione che illumina fiocamente la casa a un solo piano che emerge come una corona bianca sopra la montagna scura.
L'abitazione non ha nulla di particolare, a parte la vista spettacolare sulle catene montuose della Sierra Madre occidentale, nel cuore nel Triángulo Dorado, nel Nord del Messico, tra Durango, Sinaloa e Chihuahua. Qui, da decenni, si seminano e si raccolgono migliaia di tonnellate di marijuana e papavero, che trasformato in eroina arriva negli Stati Uniti, il più grande mercato di consumo di droga del pianeta. Improvvisamente, il piccolo lampione si spegne. È arrivato Rafael Caro Quintero, detto El Príncipe, l' uomo che sono venuta a intervistare.
La Dea (Drug Enforcement Administration, l'agenzia antidroga statunitense), lo accusa di essere l' attuale capo del Cartello di Sinaloa, insieme a Ismael Zambada, detto El Mayo.
Questa organizzazione criminale è considerata dal governo americano la più grande e potente banda di narcotrafficanti del mondo. I suoi affari criminali si estendono in America, Europa e Asia.
La penombra è assoluta e lascia il posto a un cielo zeppo di stelle brillanti e a una luna piena per metà che si conficca nel cielo come un pugnale - immagine piuttosto appropriata per questa terra che con i suoi affari criminali produce così tanti morti: dal 2007, da quando il presidente messicano Felipe Calderón lanciò la cosiddetta "guerra contro le droghe", al dicembre dello scorso anno, è stato massacrato, in Messico, un quarto di milione di persone (258.439 per l' esattezza. Fonte: Istituto nazionale di statistica e geografia); mentre dal 2007 al gennaio di quest' anno 34.201 sono scomparse (Fonte: Segretariato dell' Interno). Tra queste, più di un mese fa, nello Stato di Jalisco, anche tre cittadini italiani.
C'è tensione nell' aria e le guardie del corpo (riesco a vedere che sono almeno quattro) scrutano costantemente il cielo e mi osservano con diffidenza. Dicono che la zona è piena di droni del governo messicano e statunitense, dispiegati per catturare El Príncipe. Caro Quintero è in cima alla lista dei ricercati della Dea: il Dipartimento di giustizia statunitense offre una ricompensa di cinque milioni di dollari per chi contribuirà alla sua cattura. I suoi uomini mi portano in una cameretta sul retro della casa, e qui piazzo la poca attrezzatura che mi hanno consentito di portare per realizzare l' intervista.
Dopo una lunga attesa entra la leggenda, il capo. Tre uomini rimangono fuori di guardia, uno resta con noi nella stanza. A sessantacinque anni, El Príncipe conserva la sua statura di un metro e ottanta, con un fisico slanciato e dritto come un fuso. In testa porta un berretto azzurro dell'Adidas, sotto cui spunta una capigliatura prima bianca, ora tinta di nero. Indossa un giubbotto pesante verde militare, una camicia grigia di lana e pantaloni di tessuto misto blu indaco. Gli abiti impeccabili contrastano con le scarpe sporche di terra e gli occhi rotondi e scuri come ogive, pieni di nervosismo. Sta sudando.
Anche così, mi saluta in tono amabile e tra le sue labbra spunta un sorriso quasi infantile che contrasta con l' arma che porta appesa tra i pantaloni e la spalla, una pistola con l'impugnatura argentata; sa che potrebbe essere catturato in qualsiasi momento. Tira fuori la pistola dalla fondina e la mette sopra un mobile, accanto alla sedia dove si accomoda per iniziare l'intervista.
DODICI ORE PRIMA
Il viaggio è iniziato alle otto del mattino in una spiaggia di Mazatlán, nello Stato di Sinaloa. In quasi tutto il resto del mondo l' inverno è gelido, ma qui, fin dalle prime ore del mattino, il caldo produce un' afa che ti inzuppa tutto il corpo. Dal finestrone del ristorante posso vedere un uomo alto e obeso che nuota ossessivamente da un lato all' altro della piscina dell' albergo di lusso. Non ha l' aspetto di un turista e i dipendenti del resort che volteggiano intorno a lui lo trattano con servile familiarità.
Per decenni questo porto, situato sulla costa pacifica del Messico, è stato un punto chiave per il traffico di droga e per gli incontri di affari e di piacere dei membri del Cartello di Sinaloa, ed è stato teatro di battaglie spietate per il controllo dell' organizzazione.
Il mio contatto arriva puntuale. Mi avevano raccomandato di portarmi un berretto e un giubbotto per il freddo.
«Freddo?», mi ero domandata. «Ma se qui fanno almeno venti gradi!». Mi sono tenuta il commento per me, non era opportuno chiedere. Come in tutti questi viaggi, la destinazione è sempre incerta e il ritorno lo è ancora di più. Ho dovuto lasciare tutto: la borsetta, il telefono, il registratore; ho potuto portare con me solo la telecamera e il treppiede con la luce per il set, allestito a un' ora sconosciuta e in un luogo sconosciuto anche a coloro che dovevano trasportarmici. Mi sono portata dietro solo la patente, come unico documento di identificazione personale in caso di emergenza.
Dopo cinque ore di tragitto, la prima tappa è un albergo. Mi domandano di nuovo se ho qualche apparecchio telefonico o elettronico con me. Solo la telecamera e la luce, rispondo. Cambiamo automobile almeno tre volte. Il viaggio diventa interminabile. La temperatura a poco a poco scende.
Dopo altre quattro ore di viaggio arriviamo in un punto dove rimaniamo per parecchio tempo. Aspettano indicazioni per poter continuare. Li sento dire che sono preoccupati perché in zona c' è l' esercito messicano, cercano di capire se è possibile proseguire o se invece conviene annullare tutto. Di questo stanno parlando quando di fronte a noi passa un convoglio di almeno tre camion militari, con a bordo una decina di soldati. Tutti indossano la mimetica verde. Non notano la nostra presenza, o almeno non danno alcun segno di averla notata. Mi sento la gola secca come il deserto, mi sembra di avere delle spine dentro.
A sera avanzata prendono la decisione di continuare. Cambiamo macchina di nuovo e imbocchiamo una strada sterrata. Buona parte del tragitto passa sul fondo di dirupi, sopra pietre di torrenti, buche e scossoni. In altri tratti, ci arrampichiamo per le colline. La nostra auto si ferma improvvisamente nel mezzo del nulla, in una strada deserta. Motore spento.
Sento solo il battito intenso del cuore nel petto, come il fischio di una locomotiva. Gli uomini scendono dalla macchina e fissano il cielo. Dicono di aver visto un drone. Dicono che da mesi ci sono agenti che girano nella zona per catturare Caro Quintero.
I tre uomini più ricercati dalla Dea nel mondo sono El Príncipe, El Mayo e Nemesio Oseguera detto El Mencho, capo del Cartello Jalisco Nueva Generación (quello che il governo messicano considera responsabile della sparizione dei tre italiani).
Da tredici anni indago sulle attività del narcotraffico in Messico e sono riuscita a intervistare esponenti di varie organizzazioni criminali, alcuni loro parenti e alcuni dei loro complici all' interno del governo. Ho girato per il Triángulo Dorado cercando di capire come abbiano fatto il figlio di un contadino che sa a malapena leggere e scrivere come Joaquín "El Chapo" Guzmán, Ismael "El Mayo" Zambada, El Príncipe, El Mencho e tanti altri a diventare capi di organizzazioni criminali transnazionali, che generano milioni di dollari di utili in tutto il mondo.
Vista la tensione crescente, scendo anch' io dall' auto e sento sul viso gli ultimi raggi del sole che scompaiono tra le montagne, come un incendio sulle colline. Dopo alcuni lunghi minuti risaliamo in macchina e ripartiamo, fermandoci costantemente per verificare se ci seguono, se mi seguono. Nessuno osa parlarne apertamente, ma tutti pensano all' incontro, avvenuto nell' ottobre del 2015, tra El Chapo e due attori, l' americano Sean Penn e la messicana Kate del Castillo, per concedere loro un' intervista.
I collaboratori e i familiari del Chapo sono convinti che sia stato quell' incontro ad aver portato al suo arresto, l' 8 gennaio del 2016 a Los Mochis, nel Sinaloa. El Chapo, considerato dal governo statunitense il narcotrafficante più potente di tutti i tempi, nel luglio del 2015 era riuscito a evadere per la seconda volta da una prigione di massima sicurezza.
Già prima della sua ultima evasione aveva stabilito un contatto con Kate del Castillo, che poi era riuscita a convincerlo a organizzare un incontro con lei quando il boss era di nuovo latitante. Ora è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza a New York ed è sotto processo, che probabilmente si concluderà con la condanna all' ergastolo.
La storia di El Príncipe Rafael Caro Quintero, proprio come El Chapo, è nato a Badiraguato, un piccolo villaggio all' interno del Triángulo Dorado.
Quando aveva quattordici anni vide suo padre morire crivellato di pallottole. Cominciò quindi a dedicarsi alla coltivazione della droga, sotto la protezione del narcotrafficante Ernesto Fonseca Carrillo. L' innovazione che introdusse nella coltivazione della marijuana lo portò a produrne centinaia di tonnellate, e il suo ingegno lo trasformò a 33 anni in uno dei leader del Cartello di Guadalajara, insieme a Fonseca Carrillo e a Miguel Ángel Félix Gallardo.
A quell' epoca il Cartello di Guadalajara si alleò con il Cartello di Medellín, guidato dal boss colombiano Pablo Escobar. Con l' aiuto del Cartello di Guadalajara, Escobar riuscì a far entrare di contrabbando centinaia di tonnellate di cocaina negli Stati Uniti. Da allora, il Messico è diventato un luogo strategico per l' ingresso della polvere bianca nel Paese che possiede il numero di consumatori più alto del mondo. Le operazioni del Cartello di Guadalajara erano protette da un' estesa rete di corruzione in Messico, a tutti i livelli del potere, e per anni la sua esistenza è passata praticamente inosservata. In quel periodo, Ismael "El Mayo" Zambada ed El Chapo iniziavano la loro attività criminale nell' organizzazione.
La disfatta del Cartello di Guadalajara cominciò il 7 febbraio del 1985, quando i capi ordinarono il sequestro dell' agente della Dea distaccato in Messico, Enrique Camarena, e del pilota messicano Alfredo Zavala: i due furono brutalmente torturati e assassinati. Nel novembre del 1984, grazie al lavoro di intelligence di Camarena, nello Stato di Chihuahua era stato smantellato il ranch El Búfalo, dove il Cartello di Guadalajara produceva centinaia di tonnellate di marijuana sotto la direzione di Caro Quintero: in quell' operazione il cartello perse merce per un valore di otto miliardi di dollari.
Dietro pressioni del governo degli Stati Uniti, nell' aprile del 1985 El Príncipe fu arrestato in Costa Rica ed estradato in Messico. Dopo 28 anni di prigione, nell' agosto del 2013, con grande irritazione del governo americano, fu liberato su ordine di un tribunale che aveva stabilito che il processo contro di lui era stato illegale.
Nella sua dichiarazione di fronte agli inquirenti Caro Quintero aveva confessato di aver preso parte al crimine, mentre oggi afferma di non aver ucciso Camarena. Dopo pochi giorni di libertà, la Procura generale della Repubblica messicana diramò nuove ordinanze di arresto a suo carico: una per estradarlo negli Stati Uniti, per l' assassinio dell' agente della Dea, e un' altra per fargli scontare i dodici anni di prigione che gli rimanevano in Messico.
Come un gatto selvatico Non appena cominciamo a salire lungo le impervie strade di montagna, gli uomini di Caro Quintero iniziano ad aprirsi. Mi raccontano che El Príncipe, a causa della caccia che gli danno il governo messicano e quello americano non dorme mai nello stesso posto, e dorme sempre in tenda da campeggio e sacco a pelo. Tutte le notti, in compagnia degli uomini a lui più vicini, si sistema fra i cespugli o sotto i rami di qualche albero, nascosto come un gatto selvatico. Di giorno si aggira per i monti come un fantasma, con gli occhi incollati al cielo.
Ma il momento peggiore è la notte. El Príncipe soffre di insonnia cronica e ha continuamente l' impressione di sentire il suono di elicotteri o droni che vengono a catturarlo. Nelle prime ore del mattino, per l' angoscia sveglia i suoi uomini e ordina loro di muoversi perché stanno arrivando per arrestarlo. Loro lo assicurano che non c' è nulla, che va tutto bene, ma lui insiste e devono obbedire.
Certe volte ha camminato in piena notte lungo il bordo di un dirupo, e in più di un' occasione è caduto, mettendo in pericolo la sua vita e quella degli uomini che lo accompagnano. El Príncipe ha anche problemi alla prostata e avrebbe urgente bisogno di essere operato, ma lui si rifiuta, perché dopo l' intervento dovrebbe rimanere in una qualche clinica fermo e immobile per più di una settimana, e sarebbe alla mercé di quelli che vogliono catturarlo. Mi raccontano che vive in assoluta solitudine e che da mesi non vede la moglie, Diana Espinoza, che conobbe nel 2010 quando era in carcere, e nemmeno il figlio Agustín, di 5 anni.
Ma non sono solo i droni, la prostata e la solitudine a togliere il sonno a Rafael Caro Quintero. C' è anche suo cugino Sajid Quintero, detto El Cadete. Nell' agosto del 2017 Sajid si consegnò spontaneamente ai giudici statunitensi che lo accusano di traffico di droga e riciclaggio di denaro.
Secondo il procedimento giudiziario a suo carico, aperto in un tribunale federale della California, il 25 gennaio si è dichiarato colpevole, il che significa che c' è stato un accordo con la procura. E l' unico accordo possibile con le autorità statunitensi è rivelare informazioni che consentano di incriminare altre persone.
E per il governo statunitense la cattura di Caro Quintero è una priorità. È in questo contesto che El Príncipe ha accettato di concederci l' intervista.
«Voglio solo vivere in pace» «Mi scusi» dice Caro Quintero dopo aver messo la pistola da parte.
Per più di mezz' ora lo metto di fronte alle accuse che gli vengono mosse.
«Io non faccio parte di nessun cartello. Come già le dissi una volta, non tornerò mai più al narcotraffico» afferma categorico. In sua difesa assicura di non avere denaro. Mi dice che spende tutte le sue energie per sfuggire alla cattura.
Allora glielo domando di nuovo: in questo momento, lei è o non è uno dei capi del Cartello del Pacifico, del Cartello di Sinaloa?
«Chi lo dice mente! Mente, e me lo deve provare» mi risponde irritato. «Il governo messicano sa che sto dicendo la verità».
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Nel Nord del Messico sono comparsi manifesti dove si afferma che lei ed El Chapo siete i capi del territorio. I servizi di intelligence americani e messicani le attribuiscono il contrabbando di carichi di cocaina, metanfetamine ed eroina verso gli Stati Uniti.
«Chi lo dice mente! Chi lo dice mente! Mente chiunque lo dica, non mi interessa chi è. Mente!» ripete lui, infervorato.
Riconosce però che dopo la sua liberazione si incontrò con El Mayo ed El Chapo, prima che lo ricatturassero.
«Ci conosciamo da molti anni. Porto rispetto a tutti e due, ma niente di più. Non ho fatto nessun affare con loro, e oggi che sono uscito non voglio saperne nulla di droghe».
Di nuovo metto a confronto quello che dice con il sequestro di cinque tonnellate di cocaina avvenuto a Puerto Peñasco, nello Stato di Sonora, nel 2015. Secondo il governo erano sue.
«Dottoressa, voglio che questa cosa sia ben chiara: io non sono un narcotrafficante, io non ho mai spacciato eroina, le anfetamine neanche so che sono, di cocaina dalla Colombia, come sostiene la Dea, non ne ho mai portata neanche un grammo. Io quello che vendevo era marijuana, e la vendevo in Messico 33 anni fa. Chi dice queste cose, torno a ripeterglielo, mente!».
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Ma perché la Dea pubblicherebbe un rapporto così su di lei? Qui c' è la sua fotografia!
«Ascolti, io non sono a capo di nessun cartello Io non sono tornato alle droghe né ci tornerò mai. Sajid o chiunque stia dicendo questa cosa alla Dea mente!».
Quintero sostiene che suo cugino potrebbe essere stato utilizzato dal governo degli Stati Uniti per aprire un nuovo procedimento penale contro di lui e ottenere finalmente così la sua estradizione, un modo per vendicarsi dell' omicidio di Camarena - le leggi messicane e americane vietano che una persona sia giudicata due volte per lo stesso reato.
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Diverse informazioni raccolte indicano che lei starebbe contrabbandando cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti, in particolare Chicago, attraverso il Guatemala, e che la farebbe entrare passando per lo Stato di Sonora.
«Io vorrei chiedere a quelli della Dea di stare più attenti nelle loro indagini, e anche al governo messicano. Se mi dimostreranno, ma con certezza, che questa è la verità, allora mi consegnerò. Ma non intendo consegnarmi come informatore. Mi consegnerò come un uomo, come quello che sono, per rispondere di qualcosa che ho fatto. Ma io non mi consegnerò mai perché non ho fatto nulla, dottoressa. È molto semplice».
Perché ci tiene tanto che la gente creda questa cosa? Da quando è uscito di prigione ha detto varie volte: «Sono innocente, non sono dedito al narcotraffico». Perché le interessa che l' opinione pubblica le creda? Perché, Rafael?
DAMASO LOPEZ - CARTELLO DI SINALOA
«Guardi, io quello che voglio veramente è che mi lascino in pace. Se l' opinione pubblica vuole credermi, allora bene, ma se non vuole tanti saluti. Capisce? Io quello che voglio è essere in pace con me stesso, con me stesso! Non con altre persone. So bene quello che voglio e so bene dove vado. Quel poco o tanto che mi resta da vivere voglio viverlo in pace. Ma che mi lascino in pace, tutti ne abbiamo diritto, credo che tutti ci meritiamo una seconda opportunità».
Uscita dalla casa risalgo sulla macchina che mi riporterà a Mazatlán, mentre El Príncipe svanisce dalla mia vista, nell' oscurità. Al mio ritorno ho chiesto all' ufficio della Dea in Messico che cosa risponde alla sfida lanciata da El Príncipe, ma non hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Alcuni giorni fa ho saputo però che Caro Quintero era stato sul punto di essere catturato, all' inizio di febbraio: le autorità messicane avevano seguito le tracce di un quadrimotore che si addentrava nel Triángulo Dorado.
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