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Marco Bardesono per il “Corriere della Sera”
Tra le mani stringe mezzo limone, lo schiaccia sulle labbra e chiede se qualcuno lì intorno abbia una maglietta da regalarle: «Sono piena di gas». Gli occhi sono arrossati e lacrimano.
Mara C. è una ragazza di 19 anni. È la soldatessa di una guerra di cui non conosce i motivi. Perché è vero che è arrivata qui in Val di Susa vestita di nero e con il volto coperto, è vero che lancia pietre contro i poliziotti, ma ammette candidamente di non sapere nulla della causa No Tav. È lì a combattere perché glielo hanno detto frettolosamente gli amici black bloc. Una causa vale l’altra. «Io — spiega — vado dove mi chiamano». Come se la violenza fosse un fine in sé, un modo di sfogare l’aggressività senza una ragione.
Domenica si è «persa» due attacchi alle reti del cantiere Tav di Chiomonte. Come se fossero uno spettacolo. I suoi amici black bloc le hanno detto di guardare, che poi sarebbe toccato anche a lei. E così è stato. Mara si è presa il gas di un lacrimogeno in piena faccia, ma non le è nemmeno passato per la testa di fermarsi. «Voglio ancora andare giù a lanciare le pietre». In fondo, è come un gioco.
Accanto alla centrale elettrica dalla quale si snoda la strada dell’Avanà che porta al cantiere della Maddalena, la vegetazione è fitta e c’è quell’ombra che consente ai ragazzi vestiti di nero di riposarsi un po’, di cambiare magliette per poi tornare all’attacco. «Io sono di Palermo — racconta Mara —, ho perso madre, padre e la mia storia». Qualche soldo in tasca, il primo treno che passa e l’arrivo, circa un anno fa, a Roma. Per fare cosa? «Non lo so». Dove vivi? «In giro». Proprio come la ragazza di Ecce Bombo: vede gente, fa cose, non si sa bene perché.
Varca la soglia di un centro sociale della Capitale, sembra l’approdo più naturale e Mara ne è felice: «Ho conosciuto gente, amici. Si discute di tutto. Se vuoi dormire lì non ci sono problemi». Si vive alla giornata: «Sabato, due che conosco mi hanno chiesto se mi andava di venire qui in Piemonte. Ho detto di sì, anche se non ho capito bene a fare cosa, della Tav io non so niente.
Siamo partiti in pullman e mi hanno spiegato che bisognava attaccare la polizia. Che dovevo lanciare le pietre, ma non i petardi perché non sono capace. La prossima volta lo farò anch’io». Per Mara i centri sociali sono la compagnia e i black bloc («Non so cosa voglia dire»), gli amici che non tradiscono mai. «Mi hanno detto che è giusto fare così, per aiutare chi vive qui. Con il cantiere distruggono quello che c’è». E basta che glielo abbiano detto perché sia vero. Mara non approfondisce: si fida.
Una ragazza le porge una maglietta, Mara la infila per metà e dietro la nuca lega le maniche trasformando l’indumento in un mefisto. Un compagno si avvicina: «Tieni...» e le passa la maschera antigas. «Sì — continua Mara — me l’hanno chiesto in tanti se sono anarchica o dell’autonomia.
Per il momento non saprei, non so bene cosa significhi esserlo. Io sono per conto mio. Seguo i miei amici». Per Mara la Val di Susa non è la prima esperienza: «Sono stata anche all’Expo a Milano, ma non mi hanno fatto fare nulla perché era la prima volta». Poi quasi si scusa per l’interruzione: «Adesso vado a lanciare le pietre».
L’attacco dura pochi minuti, Mara si confonde nel gruppo e sparisce nella nebbia di lacrimogeni e fumo di petardi. La si riconosce da lontano solo per quei jeans chiari sotto il k-way nero. Torna dietro le siepi. Piange ancora, più di prima: «Dammi la medicina», chiede all’amico.
«Mi hanno detto che ne abbiamo — spiega la ragazza —. Noi andiamo a tirare le pietre dove ci chiamano, andiamo ad aiutare i compagni. Loro ci stanno vicini, ci dicono dove passare per non farci prendere, ci danno il Maalox per combattere gli effetti dei gas». E lei combatte. Senza sapere perché.
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