DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera”
Come si scopre di essere un pedofilo? «L’ho capito quando alle superiori ho sentito per la prima volta quella parola e l’ho cercata sul vocabolario. Una sola riga che descriveva esattamente le mie sensazioni». Paolo Bovi, 41 anni, si confida ai genitori. Una lettera choc che doveva rimanere personale, una confessione dolorosa e privata che però è entrata nelle motivazioni di una sentenza. Bovi, musicista, tra i fondatori del gruppo dei Modà poi loro fonico, il 10 ottobre è stato riconosciuto colpevole di molestie sessuali nei confronti di quattro ragazzini tra i 14 e i 16 anni. Rito abbreviato, un terzo di sconto della pena, condanna a 5 anni e mezzo di reclusione.
Era stato arrestato e posto ai domiciliari con un braccialetto elettronico nella sua casa in un paese della cintura milanese lo scorso gennaio. Le accuse si riferiscono a tre anni prima, quando Bovi era ancora animatore nell’oratorio della parrocchia di Cassina de’ Pecchi. Sono le vittime le prime a confidarsi con i genitori e i sacerdoti: non rapporti sessuali consumati, ma comunque atti gravi, palpeggiamenti, finti massaggi, giochi con penitenze erotiche. Non in oratorio, ma nello studio di registrazione o durante una gita in montagna.
Bovi sente il peso delle accuse. E sembra affrontare se stesso ancora prima che gli altri in quella lettera scritta da un figlio 40enne ai propri familiari. «Sono malato da tantissimo tempo, per quello che riesco a ricordare già dalle scuole medie. Sono sempre stato un bambino sensibile, dolce e sincero e ho sempre creduto che ogni cosa che dicevano papà e mamma era la verità. Per me quello che mi dicevano i miei genitori era la cosa più importante. Sono sempre stato buono e volevo conoscere il mondo come tutti».
Dopo aver scritto queste parole, lo scorso marzo, Bovi ha forzato il braccialetto, è «evaso» dai domiciliari e si è isolato vicino alla sala prove del suo gruppo, a Cernusco sul Naviglio. Lì ha pensato di farla finita, respirando l’aria velenosa da un tubo di gomma collegato allo scappamento dell’auto. È ancora in vita proprio grazie all’allarme lanciato dal dispositivo che lo «imprigionava» e all’arrivo dei carabinieri.
Nelle motivazioni della sentenza del gup Franco Cantù Rajnoldi, non c’è solo la sofferenza di chi ammette le proprie colpe, ma anche quella delle vittime. «Non mi sentivo in grado di dirgli di no, perché ho sempre seguito i suoi consigli e gli sono sempre andato dietro — ha detto una di loro —. Non era uno sconosciuto ma lo sentivo come un fratello grande di cui fidarmi ciecamente».
Sullo sfondo la gestione della vicenda da parte della chiesa, con il parroco che ascolta i primi sfoghi dei giovani, avvisa i superiori e raccoglie pure la confessione di Bovi nel segreto del confessionale. Per questo lo allontana, ma non lo denuncia. Neppure l’anno dopo, quando Bovi, violando l’«esilio» del sacerdote, organizza una gita con i ragazzi in un parco acquatico.
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