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“MI DAVANO DEL PAZZO, UN PREFETTO DISSE CHE LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA ERA UNA FORESTA, MENTRE A ROMA C’ERANO AL MASSIMO POCHI RAMI” – OTELLO LUPACCHINI, IL GIUDICE CHE DECAPITÒ LA BANDA DELLA MAGLIANA NEL 1993 RACCONTA IL VERO OSTACOLO ALLA LOTTA CONTRO LA CRIMINALITÀ: IL NEGAZIONISMO. "UN DEPUTATO E UN ALTO PERSONAGGIO DELLA MASSONERIA MI DEFINIRONO ‘PERSONAGGIO ECCENTRICO E BIZZARRO’ – C’È STATO UN DO UT DES TRA UNA FETTA DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E SETTORI DELL’INTELLIGENCE CHE IN NOME DI UNA MALINTESA RAGIONE DI STATO OSTACOLARONO LA GIUSTIZIA. LE ARMI DELLA BANDA ERANO IN PARTE CONSERVATE NEL DEPOSITO DEL MINISTERO DELLA SANITÀ ALL’EUR E FURONO UTILIZZATE PER I DELITTI DEL COLONNELLO ANTONIO VARISCO E DI MINO PECORELLI – E SU EMANUELA ORLANDI…
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera – ed. Roma” - Estratti
L’uomo che non crede nella casualità, Otello Lupacchini, 74 anni, risponde dalla sua residenza estiva di Belluno: «Nella mia esperienza nulla è stato casuale e tutto è invece stato “causale”, nel senso funzionale a determinati avvenimenti».
Il giudice che firmò l’ordinanza di arresto della Banda della Magliana (1993) e assistette al tramonto di sangue di un’epoca è ostinato lettore di certa «romanità», intesa come intreccio di ambienti diversi, alcuni opachi, tutti assolutamente in buona salute.
Dal soft power curiale all’autorità del Bureau (inteso come Servizi), dal potere coercitivo delle associazioni mafiose a quello della criminalità autoctona. In comune hanno il basso profilo, il simultaneo interesse a evitare la ribalta
La città degli affari siglati in silenzio è anche quella del non detto, della minimizzazione, della negazione. Nella Capitale il giudice dell’operazione «Colosseo», ha lavorato per circa un trentennio. Osservando, studiando, decidendo. Dando vita, mentalmente, a una robusta antologia del crimine capitolino.
Oltre trent’anni fa lei sperimentò per primo un certo negazionismo romano.
«In qualche caso si assistette a un vero e proprio paradosso: la prima ordinanza di arresto nei confronti della Banda fu accompagnata da un’archiviazione».
Può spiegare meglio?
«L’originario ordine di cattura di Maurizio Abbatino, Marcello Colafigli e decine di altri venne liquidato in quarant’otto ore e valutato infondato».
La Banda esisteva e non esisteva, secondo i punti di vista. Un po’ come la mafia al presente, se ne dibatte senza soluzione. All’epoca le fu chiara l’esistenza di un’associazione criminale di stampo mafioso?
«Feci caso ad alcune lacune investigative e decisi di approfondire».
Lei veniva da fuori?
«Sì. Da Bologna. Ero destinato al Tribunale civile ma fui applicato subito al penale in qualità di giudice istruttore. Ricordo che inizialmente ero disorganizzato, tanto che nell’indirizzario del ministero compariva addirittura il mio numero di telefono di casa».
Dettaglio che conviene tenere a mente?
«Sì, come poi dirò».
C’erano le armi e c’era il potere di intimidazione. Lei prese a studiare la Banda della Magliana...
«La “Banda della Kawasaki” la chiamava all’epoca un nostro collaboratore, Paolo Aleandri, ufficiale di collegamento fra il terrorismo dell’estrema destra di Aldo Semerari (psichiatra e criminologo, ndr) e Licio Gelli. Questi profetizzò una serie di fatti di sangue come contraccolpo alle indagini avviate».
Siamo nel 1991, che cosa avvenne?
«Interrogai Claudio Sicilia...».
Detto il «Vesuviano», mafioso ed esponente della Banda...
«Eravamo in casa mia, squillò il telefono e partì una registrazione. Una voce contraffatta mi avvertiva: “Gli infami non la faranno franca”. Sicilia venne ucciso pochi giorni dopo. Ma intanto aveva parlato. Il suo computer sparì. Nessuno, perquisendolo, lo aveva sequestrato».
Quel numero di telefono che ancora compariva nell’indirizzario, se ne servirono per avvisarla. Aveva una squadra leale?
«Chiesi a Parisi (Vincenzo Parisi, capo della polizia dell’epoca, ndr) di farmela avere. L’unico veto che posi era che non fossero agenti di Roma. Mettemmo assieme un gruppo di persone che venivano dalle Marche, dal Piemonte, dalla Toscana e via di seguito. I faldoni dell’indagine erano settantacinque...».
La vera svolta arrivò con il pentimento di Maurizio Abbatino. Era latitante dal 1986. Come riusciste a prenderlo?
«Sicilia ci aveva offerto alcuni indizi. Chiesi di mettere sotto intercettazione i suoi familiari nel periodo natalizio. Fummo fortunati. Chiamò. Era in Venezuela. Qualche mese prima gli avevano ucciso il fratello accoltellandolo».
Roberto Abbatino?
«Lui. Sul corpo furono rintracciati segni di tortura».
Un fratello accoltellato, la polizia sulle sue tracce...
«Aggiungiamoci che alcuni narcos erano intenzionati a eliminarlo... »
Era il 1992. Abbatino tornò. Parlò.
«Precisamente. Ma mi faccia dire una cosa: gli anni di impunità che precedettero l’arresto e l’espulsione dal Venezuela non furono casuali. Ricordo che le forze dell’ordine lo avevano cercato in posti improbabili come Copacabana, gli agenti dell’epoca fecero svariate vacanze giudiziarie...».
Si arrivò così alla maxi retata del 1993. Enrico De Pedis, “Renatino” era morto, ucciso in pieno centro storico nel 1990. Come reagirono i vari ambienti della Capitale? I negazionisti furono sorpresi?
«In alcuni ambienti si agitavano fantasmi di vecchie sentenze che avevano mandato assolti gli stessi personaggi. Si disse ”Lupacchini è un pazzo”. L’intercettazione fra un deputato... »
Chi?
«Non lo dirò. Dunque, un deputato e un alto personaggio della massoneria mi definirono “personaggio eccentrico e bizzarro” (ridacchia, ndr ). Tornavano in mente certi ragionamenti inconcludenti di alcuni colleghi. Uno in particolare: nel respingere una richiesta di arresto che sosteneva il reato associativo si argomentava che non vi era certezza riguardo alla sede nella quale si riunivano».
La Banda non aveva formalizzato il suo domicilio. Comico. Altre forme di negazionismo?
«Un prefetto dell’epoca disse che la criminalità organizzata era pari a una foresta, mentre a Roma c’erano al massimo pochi rami. Pareva il Macbeth...».
Avendoli avuti di fronte che idea si è fatto sui protagonisti della Banda?
«Si trattava di uomini intelligenti, consapevoli di ciò che avevano fatto e con il rammarico di non essere stati salvati all’ultimo».
Qui lei mostra di credere a protezioni superiori.
«Nel corso di un interrogatorio uno della banda mi diede un suggerimento: “Giudice non guardi i tatuaggi sulla pelle ma quelli sottopelle”. Penso vi sia stato un do ut des tra una fetta della criminalità organizzata e alcuni settori dell’intelligence che in nome di una malintesa ragione di Stato ostacolarono la giustizia.
Varrà la pena ricordare che le armi della Banda erano in parte conservate nel deposito del ministero della Sanità in via Litz all’Eur e furono utilizzate per delitti eccellenti come quello del colonnello Antonio Varisco (1979, ndr ) e Mino Pecorelli (stesso anno, ndr )».
(...)
Emanuela Orlandi: una commissione parlamentare d’inchiesta e nuove indagini in Procura sembrano dare speranza. Lei cosa pensa?
«Senza entrare nel merito, chi sa dovrebbe aprire gli armadi della vergogna. I segreti generano misteri e questi a loro volta producono miti. Nulla di più lontano dalla verità».
maurizio abbatino
otello lupacchini
documento sismi caso orlandi 44
maurizio abbatino
MAURIZIO ABBATINO
Maurizio Abbatino
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