Il decreto del delegato pontificio ingiungeva a Bianchi "di trasferirsi a Cellole senza sapere né identità né numero dei fratelli e delle sorelle che sarebbero andati a vivere con lui. Nel contratto di comodato - rende noto lo stesso Bianchi - si prevede che l'Associazione Monastero di Bose, nel suo rappresentante legale fratel Guido Dotti, può cacciare da Cellole in ogni momento, su semplice richiesta e senza motivarne le ragioni, fratel Enzo Bianchi e quanti vi risiedono con lui. Il contratto di comodato d'uso concede gli edifici del priorato di Cellole stralciando però intenzionalmente i terreni annessi all'edificio e necessari per la coltivazione, per l'orto e per la provvigione dell'acqua durante l'estate.
Si dichiara che ai monaci e alle monache di Bose che vivranno a Cellole è vietato non solo fare riferimento a Bose, ma anche affermare di condurre vita monastica o cenobitica: potranno semplicemente definirsi come coloro che danno assistenza a fratel Enzo Bianchi, pertanto ridotti a meri 'badanti'", denuncia ancora Bianchi spiegando le motivazioni per le quali è rimasto a Bose e definendo queste condizioni "disumane".
Bianchi scrive anche: "Dall'inizio di febbraio, ho ricominciato la ricerca di una dimora in cui poter vivere la vita monastica e praticare l'ospitalità come sempre ho fatto tutta la mia vita a Bose: alla mia vocazione non intendo rinunciare. Non ho nulla in più da comunicare almeno per ora. Giudicate voi!".