DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Testo di Bernardo Bertolucci pubblicato da “la Repubblica”
(Testo raccolto da Arianna Finos)
Tra le immagini di macerie trasmesse in televisione ho cercato invano di riconoscere i posti della mia memoria, di intravedere il grande Stupa che sorge non lontano da Bhaktapur. E ho avuto voglia di piangere. Katmandu, Patan, Bhaktapur sono i luoghi simbolo della cultura del Nepal, a cui sono profondamente, legato. Ed è grande il dolore per le migliaia di vittime.
Quei luoghi li ho scoperti nel 1973, quando partii per la prima volta in Oriente con mia moglie Clare, Era stata una sua idea: lei era una viaggiatrice, io non lo ero. È stato un viaggio in cui ci siamo conosciuti e riconosciuti. Un viaggio di iniziazione che buttò giù tutti gli stereotipi che avevo nella testa su questi paesi. Una scoperta totale. Andammo in Thailandia, e poi Bali, e poi a Benares, e Katmandu, dove abitammo per un mese.
Ricordo lo stupore e la meraviglia di fronte ai palazzi di Patan, in cui poi avrei girato Piccolo Buddha: era il trionfo dell’horror vacui, l’orrore del vuoto: tutto era decorato, in ogni centimetro. Architetture e sculdi ture mirabili in cui l’arte buddista si fonde con quella induista e troviamo Buddha insieme a Visnu Kali e Ganesh.
Ricordo la prima volta in cui sono arrivato in quella valle isolata, quasi inaccessibile. Restammo senza fiato per la bellezza di Bhaktapur e Patan, che chiamavamo Patan city. Emozionati di fronte a questi tetti su cui cresceva l’erba, qualcosa straordinariamente poetico che mi faceva pensare a un paesino dell’Appennino parmense. L’incontro umano fu emozionante. Quella popolazione aveva una grande cultura dell’accoglienza.
Quella gente era un po’ come nei sogni di Pierpaolo Pasolini quando parlava dell’innocenza arcaica, nei paesi più poveri e più spirituali. Davanti a un fiume nei dintorni di Katmandu ho assistito per la prima volta a una cremazione. C’era qualcosa di pulito, di puro, in quella carne che diventava fuoco e fumo.
Nel ’73 Katmandu, Bhaktapur, Patan erano itinerario per hippy, meta di un turismo povero e rispettoso di quei luoghi. Quando ci sono tornato 20 anni dopo per i sopralluoghi e poi le riprese di “Piccolo Buddha”, nei primi anni ‘90, aveva un suo aeroporto in grado di accogliere enormi charter pieni di quel turismo che rovina tutto. Anche noi arrivammo come una specie di esercito di occupazione, tanti camion e i gruppi elettrogeni contribuendo sicuramente ad aumentare lo smog.
La piccola locanda in cui avevamo alloggiato nel ‘73, che si chiamava Yak&Yeti, vent’anni dopo era diventato un lussuoso albergo a cinque piani che ci fece da quartier generale durante le riprese. Tremo al pensiero che sia crollato. Lì dentro facevamo le proiezioni con i materiali che ci mandava la Technicolor da Roma, erano tempi di un cinema che non c’è più.
A Bhaktapur abbiamo girato tutte le scene ambientate nella reggia di Siddharta prima che diventi Buddha. Alla struttura aggiungemmo una parte realizzata da noi, che i nepalesi hanno voluto conservare. Ora le macerie di una città così antica, si sono mescolate alle macerie del cinema che avevamo portato noi. Vicino a Bhaktapur c’è un grande, bellissimo stupa con gli occhi di Buddha dove il bambino americano chiede cosa vuol dire la parola impermanenza.
I buddisti tibetani creano dei meravigliosi coloratissimi mandala di sabbia che saranno distrutti da un colpo di vento. Ecco l’impermanenza. Riusciamo noi a immaginare la tragedia che sarebbe la perdita in pochi secondi di una delle nostre straordinarie città toscane? Difficile.
Alla tragedia del Nepal c’è già stata una risposta del mondo. Spero che sia forte, che ci sia una grande solidarietà per quelle popolazioni lontane. Sono luoghi e uomini molto lontani, montanari testimoni di qualcosa che va assolutamente salvato.
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