COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Trenta milioni di dollari per promuovere un film: il doppio di quanto speso per realizzarlo (15 milioni).
L' assunzione a tempo indeterminato e senza badare a spese di Lisa Taback, la più grande stratega delle campagne per la conquista degli Oscar che da un quarto di secolo domina la scena di Hollywood.
L' acquisto del 50% della società che gestisce i cartelloni pubblicitari stradali nei punti nevralgici di Los Angeles.
La «notte delle stelle» di Hollywood è sempre stata preceduta da campagne - in parte pubbliche, in parte sotterranee, a volte senza esclusione di colpi - delle case di produzione a sostegno dei loro film. Ma quella che si è sviluppata nelle ultime settimane, alla vigilia dell' assegnazione degli Oscar 2019, è una battaglia di una durezza senza precedenti: case di produzione scatenate in parte perché tra le otto opere in gara per il titolo di miglior film c' è un certo equilibrio (nessun favorito).
Ma la vera novità, il fattore-chiave, è l' attivismo spregiudicato di Netflix, decisa a sbancare Hollywood col suo Roma di Alfonso Cuarón. Se gli «alieni» dello streaming, che puntano tutto sulla tv lasciando solo le briciole al grande schermo, riusciranno a espugnare la fortezza degli Oscar con un film d' autore, straniero (memorie d' infanzia del regista in Messico), girato in bianco e nero e con i dialoghi in spagnolo, per le majors e per l' industria delle sale cinematografiche suonerà la campana a morto.
Sarebbe una sconfitta bruciante per le catene che hanno rifiutato di proiettare «Roma» nei loro multisala perché Netflix, prima di darla in tv, era disposta a concedere loro l' opera solo per pochi giorni anziché per i tre mesi consueti.
E sarebbe un' umiliazione per gli studios storici di Los Angeles: dalla Warner Bros che si sta dissanguando per sostenere il mediocre ma popolare A Star Is Born (un remake con Lady Gaga diretto e interpretato da Bradley Cooper), alla Disney che sta investendo massicciamente sul suo Black Panther .
Non sempre, però, funziona: la Universal si è battuta con vigore per il suo First Man (l' astronauta Armstrong sulla Luna) che, però, pur ottenendo alcune nomination, non è riuscito a entrare tra gli otto candidati al titolo di miglior film dell' anno.
E allora Netflix (presente nella battaglia per gli Oscar anche con un altro film, The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen, in lizza per sceneggiatura, costumi e musiche) ha sfoderato l' artiglieria pesante: mesi di campagna a tappeto presso i giurati delle varie competizioni, dagli Emmy agli Oscar, presentazioni, mostre, pranzi.
E poi la città riempita di cartelloni con le scene in bianco e nero di Roma . E il reclutamento della Taback: non chiamata a svolgere il suo classico ruolo di consulenza, ma letteralmente comprata con tutta la sua agenzia di pubbliche relazioni.
Scelta comprensibile visto che Lisa, cresciuta sotto le ali dello spregiudicato Harvey Weinstein (lì fece trionfare anche film raffinati, poco adatti ai gusti del grande pubblico americano, da Shakespeare in Love a La vita è bella di Benigni), è diventata una leggenda riuscendo a far premiare quasi tutti i film da lei sponsorizzati: da Il discorso del re a La La Land , da Spotlight a Moonlight .
Il suo capolavoro: aver portato alla vittoria un film in bianco e nero e, per giunta, muto. Ma The Artist era una celebrazione del mondo di Hollywood: con la triste storia di Cleo, la domestica di campagna trapiantata a Roma, quartiere bene di Città del Messico, sarà più dura.
«Comunque vada» sostiene Barry Diller, tycoon dell' intrattenimento digitale ed ex capo di Paramount e Fox, «Netflix ha già stravinto». La fortezza di Hollywood, per lui, è già caduta.
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