DAGOREPORT - È TORNATA RAISET! TRA COLOGNO MONZESE E VIALE MAZZINI C’È UN NUOVO APPEASEMENT E…
Michele Smargiassi per “la Repubblica”
Appena ufficializzata da Mr President Obama in un ironico spot, ecco, la bacchetta magica delle vanità viene scomunicata dal più autorevole sacrario dell’arte americana: il Metropolitan Museum di New York mette al bando i selfiestick.
I visitatori saranno cortesemente invitati a depositare in guardaroba le asticelle telescopiche per smartphone, dilaganti gadget dell’era del foto-narcisismo, come si fa con gli ombrelli. Ovviamente la motivazione è tecnica: intralciano. «Invadono lo spazio personale degli altri visitatori », e qui però cominciano i problemi, perché c’è da discutere sulle dimensioni di questo spazio vitale: la canna da pesca fotografica lo violerebbe, mentre la foto presa col braccio teso, che resta autorizzata, no.
Ma una visita alla Gioconda, perennemente giustiziata da plotoni d’esecuzione di fotofonini anche senza prolunga, dimostra il contrario a chiunque. Eppure proprio dal Louvre partì la battaglia per la libertà di autoritratto-con-capolavoro, e furono proprio i custodi a farsene paladini, al grido di «chi siamo noi per impedire alla gente di godere delle opere d’arte nel modo che preferiscono?».
Da allora, il divieto di fotografia nei musei si è convertito con travolgente rapidità nel suo opposto (anche in Italia una disposizione ministeriale da quasi un anno la permette), anche perché i direttori dei musei si sono resi conto che la condivisione sui social network delle fotine dei visitatori davanti ai loro quadri vale mille volte di più di qualsiasi promozione: e costa niente.
Ma quell’antenna no, è troppo invadente, rischia di sfregiare le tele, di accecare il vicino, chi la manovra diventa distratto, una sala di museo rischia di diventare irsuta di lance come la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. A malincuore, dunque, niente foto-bastoncini, ma come la prenderanno i visitatori? Brevettato dieci anni fa, ma esploso solo nell’era della foto-condivisione, il selfiestick non è un banale accessorio del fotografo come il treppiede.
È una protesi corporea. Consente all’egonauta di variare un po’ l’inquadratura troppo ripetitiva della foto a braccio teso, di variare angolo e prospettiva, ma continuando a praticare quel gesto di introversione iconica (mi vedo, mi piaccio, mi clono da solo) senza il quale il morbo del selfie non avrebbe mai attecchito; senza doversi amputare di quell’arto supplementare, sempre tiepido del nostro calore corporeo, che è il telefonino. E quel bastoncino, pure, è ormai un pezzo del nostro corpo, un cordone ombelicale, un nervo ottico estroflesso. Non sarà così indolore reciderlo.
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