DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Stefano Bartezzaghi per “la Repubblica”
Bisogna ammetterlo. Passando in luoghi come il ponte Sant’Angelo a Roma, ci si deve oramai fare largo nel canneto di selfie-stick branditi o dai loro pullulanti venditori o dai clienti che li hanno già messi in uso; allora, beh, un po’ della benevolenza e persino della tolleranza con cui ci si sforza di guardare alle mode di massa viene meno. Del resto il selfie, cioè l’autoscatto reso virale e immediatamente pubblicabile dagli smartphone, pare proprio un perfetto bersaglio per gli opinionisti meno indulgenti.
Una filigrana maligna si trova sempre, nella manie di massa. Incominciò Platone, deprecando l’invenzione della scrittura: come potrebbero fare eccezione i selfie? Le più recenti bordate antiselfie sono state parecchio autorevoli. C’è la divertente canzone “Anti-Selfie” di Devin Parker, c’è l’account Facebook, che si propone come vagito di un movimento, c’è contro i selfie, insomma, una reazione che non può certamente essere liquidata in puri termini di snobismo.
Come suo teorico si candida lo storico dell’arte Simon Schama. A inizio aprile, presentando una mostra di ritratti della National Portrait Gallery e una parallela trasmissione televisiva per la Bbc, Schama ha opposto l’arte del ritratto e dell’autoritratto alla voga contemporanea del selfie: il ritratto è il risultato di una «transazione» fra il modello, l’artista e l’osservatore; il selfie è «la rapida stupidaggine di un attimo», ma per le generazioni giovani è tutto.
La preoccupazione di Schama è che il selfie sia il modo in cui, cercando il proprio sguardo in una fotocamera, cessiamo di guardarci l’uno con l’altro. «Nella nostra società, gli sguardi reciproci e i “mi piace” dovrebbero significare di più di quanto vogliano dire su Facebook». Quando Schama sostiene che il selfie è basato sull’attimo, mentre l’arte è ricerca di persistenza (se non immortalità) qualche dubbio viene: chi mai ha pensato di paragonare il proprio autoscatto a un Rembrandt?
Sarebbe come criticare i tweet perché nessuno di essi si approssima a un verso del Petrarca. Più ragionevole sembra Schama quando dice che la pioggia meteoritica di immagini che ci infradicia ogni giorno è l’equivalente visivo del «rumore bianco », che sta alla musica come i nostri poveri selfie stanno all’arte figurativa. Nessuno lo può negare (e infatti, a quanto pare, nessuno lo nega).
Schama menziona il famosissimo ritratto fotografico di Winston Churchill, eseguito da Yousef Karsh nel 1941. Churchill vi mostra una chiara volontà bellicosa, annuncio della resistenza e poi dell’offensiva antinazista che il premier avrebbe condotto. In realtà il fotografo ottenne quell’espressione strappando a Churchill l’amato sigaro: «L’emblema dell’indomabilità della Gran Bretagna era in realtà il ritratto di un uomo a cui era stato impedito di fumare».
Il selfie è la figura retorica che esprime quel desiderio, oramai considerato quasi come un diritto civile, che è l’autopresentazione. È la faccia attiva del diritto alla privacy: come vuoi essere presentato? Cosa vuoi che si dica di te, della tua vita, della tua opera, della tua linea politica? Se il giornalismo di inchiesta consiste nell’emersione di verità inconfessate (come la voglia matta di fumare sigari), lo star system ovviamente predilige la possibilità di presentarsi da sé, nascondendo i difetti o almeno mettendo in mostra quelli più simpatici.
Da questo punto di vista è curioso come vengano pubblicati e definiti come «selfie» scatti che selfie non sono, ma ritraggono personaggi (per esempio, i coniugi Obama) ripresi nell’atto di fotografarsi. Ma a essere pubblicato non è il selfie, bensì la foto che ritrae sia i personaggi sia il loro fotografarsi. Come tutti noi, anche Barack Obama si compiace nel fare boccacce di fronte al suo smartphone. Ma soprattutto vuole farcelo sapere.
Non si può invece seguire Schama quando dice che oramai nella metropolitana nessuno si guarda negli occhi, perché ognuno è concentrato sul proprio smartphone. Qui gli si può opporre il parere dell’antropologo Marc Augé che già nel suo “Un etnologo nel métro” aveva notato come lo standard relazionale che si adotta in un vagone di metropolitana prescrive di non guardare mai nessuno negli occhi. È un libro del 1986: il selfie non c’entra.
La stroncatura di Schama è stata poi rincarata lo scorso sabato dallo scrittore Howard Jacobson, che ha aggiunto un tassello importante a una possibile teoria critica dell’autopresentazione. Perché leggere?, ci si chiede oggi in Italia. Umberto Eco risponde che chi legge non vive solo la vita propria ma anche vite altrui, in cui solo i romanzi sanno far immedesimare.
Analogamente vedersi nella foto scattata da qualcun altro fa scoprire qualcosa che può erodere ogni nostra mania identitaria. Fatalmente, invece, nel selfie ci accomodiamo all’interno del nostro stesso voler-apparire, e alle sue forme. Invece che una personalità individuale finiamo per esprimere il desiderio di dissolverne i caratteri distintivi in una sorta di formattazione collettiva: the Big Selfie in cui siamo ritratti tutti, e nessuno.
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