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E' morta come Yara: al freddo di una notte di gennaio, in un luogo isolato, ferita e senza nessuno che la potesse aiutare. A trent'anni dal fatto, l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di 20 anni trovata morta in un bosco del Varesotto, potrebbe non rientrare più nell'elenco dei 'cold case'. Fu il primo caso in Italia in cui si ricorse al test del Dna, anche se poi le analisi non portarono a nulla.
Stefano Binda, 48 anni, ex compagno di liceo e, come lei, frequentatore dell'ambiente di Comunione e Liberazione è l'uomo che l'avrebbe uccisa. Di più, gli investigatori dicono che l'ha uccisa con 29 coltellate dopo averla violentata, perché sarebbe stato convinto che lei si era concessa e che non avrebbe dovuto farlo per il suo "credo religioso".
La lettera. Gli investigatori sostengono anche che fu lui, Binda, a recapitare il giorno dei funerali una lettera a casa Macchi. Si intitolava "In morte di un'amica" e conteneva riferimenti impliciti all'uccisione della giovane che veniva definita "agnello purificato". Determinante è stata la testimonianza di un'amica, ascoltata dai magistrati il 24 luglio 2014.
Il caso era stato riaperto l'anno prima, quando il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda aveva avocato le indagini prima coordinate dalla Procura di Varese. Anche il legale della famiglia in quella circostanza aveva sollecitato nuove indagini sui reperti (peli, capelli, dna) e sulla lettera anonima. Di lì a poco quel documento è finito nelle mani dei giornalisti della Prealpina che lo hanno pubblicato. Ed è a questo punto che si inserisce la testimonianza dell'amica di Binda.
"E' la scrittura di Stefano". "Mi colpiva la grafia - aveva spiegato agli inquirenti - in quanto da subito mi sembrava familiare (...) così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano (Binda) e con sorpresa notavo una grande somiglianza nella grafia". La donna vide la lettera anonima dopo che a giugno fu pubblicata da un giornale locale, La Prealpina. La perizia calligrafica ha poi dato evidenza scientifica - dicono gli investigatori - alle impressioni della donna.
La confessione su un foglio. "Stefano è un barbaro assassino": sono le parole scritte in un foglio trovato dentro un'agenda trovata a casa di Binda. La grafia del foglio "risulta ascrivibile allo stesso Binda" si legge nell'ordinanza di custodia cautelare.
La morte. Il 5 gennaio 1987 Lidia Macchi era uscita di casa per andare a trovare un'amica ricoverata all'ospedale di Cittiglio (Varese). Non era mai più tornata indietro. Per giorni interi, genitori, amici, compagni di Cl e forze dell'ordine l'avevano cercata ovunque.
MACCHI BINDA IN MORTE DI UN'AMICA
Poi il suo corpo era stato trovato in un boschetto di Cittiglio. Binda - stando all'imputazione - l'avrebbe sorpresa nel parcheggio dell'ospedale e sarebbe salito sulla sua macchina. Insieme avrebbero raggiunto il boschetto dove poi lei è stata trovata cadavere.
Le ferite sul corpo (soprattutto schiena e gamba), dicono che Lidia è stata accoltellata anche mentre cercava di scappare. Le perizie aggiungono che sarebbe morta per le ferite e per "asfissia" e dopo una lunga "agonia" in una "notte di gelo". Proprio come Yara.
"Il delirante credo religioso". L'imputazione parla di omicidio aggravato da motivi abietti e futili, dalla crudeltà (29 coltellate), dal nesso teologico e dalla minorata difesa. Binda, infatti, avrebbe prima costretto la ragazza a un rapporto non consenziente e poi l'avrebbe uccisa con coltellate "a gruppi di tre".
Binda avrebbe ucciso "per motivi abietti e futili, consistenti nell'intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte; intento punitivo pertanto del tutto ingiustificabile e sproporzionato agli occhi della comunità".
L'eroina. Non sembra "potersi escludere" che la "fragilità di Stefano Binda", che qualche anno prima dell'omicidio aveva iniziato a fare uso "saltuario" di eroina, fosse diventata "il motivo di interesse di Lidia" nei suoi confronti.
Lo scrive il gip Anna Giorgetti che nell'ordinanza di custodia cautelare analizza il fatto che i due giovani all'epoca erano diventati "buoni amici" e che Binda da ragazzo era "dotato di brillante intelligenza", "molto colto", una sorta di "intellettuale dannato" e ciò ne aumentava "il fascino" verso coloro che lo frequentavano. Tra i due ci sarebbe stata "una sorta di infatuazione/attrazione anche reciproca".
E Lidia, tra l'altro, "poco prima del Natale '86" era andata in una libreria "ad acquistare numerosi libri sulle tossicodipendenze". Quella sera del 5 gennaio 1987 in macchina con lui, secondo il gip, "Lidia non pensa nemmeno remotamente a fare l'amore", ma "le pulsioni del giovane prendono il sopravvento".
E "Stefano - scrive ancora il gip - preda delle sue ossessioni religiose, vive 'il dopo' con rabbia", è "irato, delirante, identifica in Lidia la fonte dell'antichissimo errore, il peccato originale che lo ha rovinato per sempre". E "perde la testa, estrae un coltello e colpisce".
La vittima. Aveva vent'anni ed era studentessa di legge alla Statale di Milano e capo guida scout nella sua parrocchia di Varese. I genitori hanno sempre chiesto che venisse scoperta la verità. "Siamo stupiti - dicono ora attraverso il legale di famiglia, Daniele Pizzi - Speriamo che questo serva per far emergere finalmente la verità".
L'assassino. Laureato in filosofia, viene descritto da chi ha avuto a che fare con lui per ragioni investigative come "colto", senza occupazione fissa (viveva con la madre pensionata a Brebbia, nel Vartesotto) e con un passato di droga negli anni Novanta.
IL serial killer Per il delitto, a un certo punto, fu indagato anche un presunto serial killer, Piccolomo, imbianchino all'epoca 64enne che era già stato condannato all'ergastolo per il cosiddetto 'delitto delle mani mozzate'del 2009 e indagato per l'omicidio della moglie avvenuto 2003. Ma dopo quasi un anno di indagini - durante le quali venne anche comparato l'identikit dell'assassino della ragazza con la foto da giovane di Piccolomo - tutto fu archiviato.
IL sacerdote Ma prima ancora si era sospettato di un religioso, don Antonio Costabile, responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia. Pur non essendo stato mai formalmente indagato, la sua posizione era rimasta come sospesa per anni, fino a quando il sostituto procuratore di Milano Carmen Manfredda aveva formalmente archiviato la posizione di don Antonio restituendogli così una sorta di riabilitazione. L'omicidio Macchi, un vero e proprio cold case, era stato riaperto nel 2013 quando Manfredda aveva avocato a sé l'inchiesta fino a quel momento gestita dalla Procura di Varese.
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