DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Paolo G. Brera per la Repubblica
Rossana sarebbe agli arresti domiciliari, ma per far due chiacchiere è scesa dagli amici in piazza. Seduta accanto alla fontana senz' acqua, alla luce sghemba dei pochi lampioni accesi spiega l' edilizia sociale di Montecucco, scampolo del Trullo che fa borgata a sé nella periferia difficile di Roma Sud.
«Nonno era assegnatario della casa popolare, ma non c' è più da anni.
Un giorno mio fratello mi ha buttato fuori di casa perché si è messo con una ragazza, e io sono salita nei lavatoi e mi sono costruita casa mia». Le chiamano «le mansarde», sottotetti ricavati in qualche modo e allestiti come si riesce.
«Con il mio compagno ci abbiamo speso decine di migliaia di euro per il bagno, l' impianto elettrico, i pavimenti». Ora lui è in carcere a Rebibbia, «e ci sono pure mio zio e mio figlio», sorride tenendo per mano il nipotino.
Anche Giorgia, 31 anni, vive «in mansarda» con la sua bimba.
Sono nata al lotto 12, in via Porzio, e ho vissuto con nonna fino a quando ho preso una mansarda per me insieme al mio compagno di allora». L' anno scorso Giorgia ha rilevato l' edicola nella piazza, e tira avanti.
Montecucco è un quartiere nel quartiere; una banlieue di povertà romana in cui i nuovi diritti generati dall' immigrazione precipitati su equilibri sedimentati in decine di anni. Servirebbe la mano pubblica, la mediazione sagace. Ma la mano pubblica è la stessa che lascia sfitti i negozi e non crea spazi per attività culturali; che spegne la fontana per la siccità ma non ripara «da un anno » la perdita da un palazzo. La stessa che costruì il parco giochi ma poi lascia le altalene rotte come statue dissennate.
«Qui davvero la gente non sa cosa mangiare dal quindici del mese», dice Anna la barista. «Ci sono dieci persone, sedute lì fuori? Fumano tutti, ma se hanno le sigarette in due sono tanti».
Una polveriera di diritti inesistenti in cui centinaia di persone hanno imparato a rosicchiare con gli incisivi affilati quel poco che c' è: «Avessero fatto subentrare gente come noi l' avremmo capito, non avremmo avuto da dire. Ma non puoi mandare una famiglia di stranieri levando la casa a una mamma italiana».
Non è la prima volta che scendono in piazza per combattere la cacciata di un inquilino abusivo per ospitare "stranieri", come li chiamano anche se stranieri non sono, anche se hanno cittadinanza italiana. «Tre anni fa una famiglia di egiziani rinunciò - dice Carla - L' anno scorso la cubana: per farle posto cacciarono di casa Valentina, vedova con due figli. Mi domando: com' è possibile sia toccato alla cubana, con persone in graduatoria da trent' anni? ».
Carla ieri era in piazza a protestare: «Mia madre, Ines Amici, fece domanda nel 1972. È morta senza che le venisse assegnata.
Noi per anni abbiamo abitato in 12 in casa di mio suocero al lotto 15, poi si è ammalato di Alzheimer... Ho chiesto casa agli assistenti sociali, hanno detto no.
Dal 2004 vivo al lotto 17 dove facevo le pulizie. Mi sono messa d' accordo con la signora, e alla sua morte siamo subentrati. Ho fatto la sanatoria, ma non ho i soldi per l' affitto maggiorato per l' occupazione. Mi chiedono 371 euro invece di 90, ma io faccio le pulizie in nero, come faccio?».
Ecco perché non capiscono come mai non spetti mai «a noi», la casa che viene assegnata «a gente di fuori», a «stranieri», «ai neri ». Probabilmente avevano tutti diritto alla casa popolare, ma non l' hanno ottenuta e lo hanno perso occupando. «I miei erano locatari con contratto regolare dagli anni '60 - dice Marcella - ma il diritto non si trasmette ai figli. Quando a 48 anni ho occupato un lavatoio per assoluta necessità, l' Ater mi ha denunciata: processo penale, assolta. Ho fatto tutti i lavori che ho potuto permettermi, nella mansarda: il bagno, per esempio, è perfetto.
Ora tiro avanti, ma la casa Ater non l' avrò mai, ho perso il diritto. E potrebbero cacciarmi».
«Mia suocera ha fatto domanda più di venti anni fa e ancora aspetta: io che la faccio a fare?», domanda Federica D.A., 33 anni.
Vive ancora coi suoceri: «Siamo in sei in 60 metri. Lavoro in un supermercato, ma hanno ridotto le ore e guadagno 300 euro al mese. La mia prima figlia ha 10 anni, suo papà è in carcere e lo ha visto tre volte in vita sua. Ho chiesto una mano agli assistenti sociali: inutile».
«Perché non dà un' occhiata in delegazione? Io prendo 289 euro al mese di invalidità - dice Angelo Innocenti aggrappandosi al bastone - e i rom con i sussidi per i figli prendono assegni da 600 euro». Bastava un cerino, sì, per accendere il rogo.
2. SFRATTI A PISTOLETTATE E INQUILINI IMPOSTI COSÌ IL RACKET GESTIVA IL TUFELLO
Francesco Salvatore per la Repubblica - Roma
UN "clan" familiare che viveva dei guadagni della vendita di eroina e che non si faceva scrupoli a sparare per scacciare una famiglia dall' alloggio popolare in cui viveva e ad occuparlo indebitamente. Una vera e propria attività di spaccio legata al racket degli alloggi quella scoperchiata al Tufello dagli agenti del commissariato Fidene Serpentara.
Su disposizione del gip Anna Maria Gavoni, al termine di un' indagine della procura coordinata dal procuratore aggiunto Lucia Lotti e dal sostituto Laura Condemi, sono finite in manette sei persone.
A capo del gruppo c' era Gianluca D' Ascenzo, 47 anni, pregiudicato già noto alle forze dell' ordine, e già condannato per omicidio. Agli arresti anche la moglie Barbara Iggiotti, la madre Marsilia Giustini, e il nipote, Gabriele Cicchetti. Gestivano insieme un giro di droga e di estorsioni, ma era lui, col suo profilo criminale, ad imporre nel quartiere la legge delle armi per il controllo degli alloggi popolari.
Uno l' episodio contestato, per quanto riguarda il racket, esemplificativo però del clima di violenza imposto alle vittime: "Mo' me ne devo anda'. Torno tra venti minuti, se ti trovo ancora qui ti sparo", è la minaccia fatta da D' Ascenzo, nel febbraio dello scorso anno, a una famigliola di sudamericani. Al loro ritorno a casa le vittime si erano viste sottrarre l' appartamento, di proprietà dell' Ater, nel quale risiedevano, in via Giovanni Conti. Prima dell' occupazione si erano allontanate per alcuni giorni, per dei problemi fognari all' alloggio, e al rientro avevano trovato la serratura di casa cambiata. Dentro D' Ascenzo, che non aveva fatto mistero di quanto poi avrebbe messo in atto: "Il tempo sta per scadere, sto tornando, ricordati di quello che ti ho detto prima", aveva minacciato al telefono a una delle vittime.
Il capo famiglia, però, non ci era stato. Aveva deciso di non piegarsi e denunciare la prepotenza subita. Subito aveva chiamato la polizia, che era intervenuta sul posto. E D' Ascenzo, da par suo, non si era fatto trovare. Poco dopo, però, avrebbe messo in atto la sua vendetta: intorno alle otto di sera, a bordo della sua Wolkswagen, ha seguito la famigliola sudamericana, marito e moglie col figlio di due anni e il suocero. Si è affiancato alla loro auto e ha esploso dei colpi con il suo revolver. Secondo gli inquirenti l' arrestato avrebbe sparato per uccidere, motivo per cui gli è stato contestato anche il tentato omicidio.
A nulla è valso il tentativo di copertura fornito dal nipote: all' indomani Cicchetti, sentito dagli agenti, ha cercato subito di depistare le indagini: ha negato di aver avuto contatti con lo zio, "l' ho sentito due giorni fa", ha dichiarato, anche se erano stati al cellulare per ben 16 volte. Come è stato per lui, adesso, sono in corso approfondimenti investigativi per valutare la posizione di altre persone, che in vario modo hanno fiancheggiato e sostenuto le attività illecite del clan. Al momento sono 10 le persone iscritte nel registro degli indagati. A quanto pare al Tufello erano in molti a chiudere un occhio su droga e ricatti.
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