FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Stefano Pistolini per “Il Venerdì - la Repubblica”
La vita è fatta di occasioni. Bisogna saperle riconoscere, e poi le cose potrebbero cambiare radicalmente. Perciò non deve sorprendere se, in tempi d’incertezza diffusa riguardo al conseguimento dei propri obbiettivi, il «self help» – l’insieme delle tecniche per la «realizzazione del sé» – sta conoscendo un crescente successo di pubblico. Qualsiasi sia la scorciatoia per farcela, ben venga.
È qui che s’inserisce la storia di Amy Cuddy, docente alla Harvard Business School, dove studia i condizionamenti dettati dal comportamento non verbale. Secondo le ricerche condotte da Amy e dal suo team, la chiave indispensabile per il nostro successo sta nel prestare la massima attenzione alla condotta esteriore, fattore primario attraverso il quale gli altri si fanno un’opinione su di noi. Il successo, secondo la Cuddy, dipende da come comunichiamo autorevolezza, conquistando la fiducia di chi valuta se scommettere sulla nostra offerta.
Inizialmente Amy ha diffuso il suo messaggio attraverso un canale efficace come i TED Talks, le conferenze sulle «idee che vale la pena diffondere», popolarissime sul web, sullo stesso sito TED e su YouTube. Nel 2012 infatti la Cuddy è stata invitata a tenere un TED Talk, che all’epoca lei intitolò «È il vostro linguaggio del corpo a definire chi siete» ma che oggi è stato ribattezzato «il discorso sull’atteggiarsi a Wonder Woman».
Quattro anni più tardi, la strabiliante cifra di 40 milioni di visualizzazioni ne hanno fatto il secondo intervento più visto nella storia del progetto TED, e tutto questo essenzialmente grazie alla efficace esposizione di un paio di concetti: il primo è quello secondo il quale, se si assumono atteggiamenti fisici decisi e volitivi, si aumenta la propria autostima e di conseguenza, negli appuntamenti che contano come un colloquio di lavoro o un esame, si offre un’immagine positiva e consapevole.
Sedersi in modo eretto e confortevole, rifuggere dalle pose curve o difensive, stimolare la fiducia in noi stessi con ampi movimenti di distensione e di «potere» come l’allargare le braccia e il tenderle verso l’alto, incrociare le mani dietro la nuca, stare in piedi ben dritti con le mani sui fianchi (è questa la famosa posa-Wonder Woman), privilegiare atteggiamenti disinvolti come il mettere i piedi sulla scrivania o l’occupare più spazio del necessario su un divano, sono operazioni che «ci fanno bene», aumentando la fiducia in noi stessi e provocando sensazioni di benessere.
Più ostenteremo con efficacia sicurezza, più ci sentiremo convinti d’esserne in possesso, perché particolari gesti e determinate posture «ingannano» il nostro cervello, inducendolo a rilasciare testosterone (il cosidddetto ormone dell’assertività) e a tenere sotto controllo il cortisolo (l’ormone dello stress).
Nella conferenza-TED la Cuddy illustrava i suoi argomenti come una brava divulgatrice, in modo chiaro e avvincente, suffragandone la veridicità con dati facilmente comprensibili. Ma a rendere straordinario l’intervento, è stato un inatteso fattore personale: con un imprevisto detour e cedendo apertamente alla commozione, a un certo punto la Cuddy ha spostato il focus dall’esposizione di uno studio scientifico, al racconto di un’esperienza privata. Perché lei c’è passata.
È stata la prima a sperimentare ciò che teorizza. Mentre frequentava il secondo anno di studi all’Università del Colorado, Amy è rimasta vittima di un brutto incidente stradale, nel quale ha subito un grave trauma cerebrale. Secondo i medici, i danni avrebbero avuto conseguenze permanenti per le sue facoltà intellettive, prova ne fosse che il quoziente intellettivo di Amy era sceso di 30 punti, mettendo in discussione anche la prosecuzione dei suoi studi accademici.
La Cuddy ha cominciato a dubitare di se stessa e delle proprie capacità, ormai convinta di non meritare più le opportunità che poco prima erano per lei a portata di mano. È la psicologia a soccorrerla. I sensi di colpa che le derivano dalla sensazione d’inefficienza e la «sindrome dell’impostore» che la devasta allorché si percepisce incapace di raggiungere i propri obbiettivi, vengono ammortizzati dalla consapevolezza di poter ancora giocare con acume e strategia la propria partita.
È questo il secondo cardine della teoria che Amy vuole diffondere: «fingi di essere, prima di diventare». Insicurezze, timori, continue verifiche delle proprie capacità, non fanno che nuocere alle nostre aspirazioni e alla possibilità di realizzarle. Ribaltando la questione, allorché ci si trova in una posizione di difficoltà, è indispensabile guadagnare tempo e riposizionarsi, assumendo artificiosamente atteggiamenti fisici e verbali forti e consapevoli.
«Se le nostre nevrosi ci indeboliscono» sostiene la Cuddy «perdiamo sicurezza e capacità di esprimere le nostre passioni: diventiamo autoreferenziali e mostriamo la nostra incertezza anche fisicamente, aprendo la strada al rifiuto».
La proposta, a prima vista, è sconcertante: simulare d’essere ciò che si vorrebbe essere, fin quando non riusciremo a esserlo veramente. Esistono tecniche che possiamo imparare, fin quando non acquisteremo la necessaria naturalezza. Rischiare, per vincere: all in, come si dice a poker.
Assumere studiatamente pose «vincenti» migliorerà il nostro approccio e ci farà accogliere con maggiore attenzione, il che produrrà circostanze favorevoli ai nostri scopi. I tremori dell’«impostore», se assoggettati al controllo della volontà e al condizionamento della nostra esteriorità, si trasformeranno in proposte vincenti. In determinate situazioni, saremo ciò che sembriamo, dice Amy.
A prima vista c’è da stupirsi che una tesi del genere abbia fatto tanta breccia nel tradizionale modo di pensare americano, così orientato alla meritocrazia e all’etica del lavoro.
Ma è sufficiente rifletterci un po’ di più, basta figurarsi l’uomo o la donna qualsiasi che possono prestare orecchio a questo genere di suggerimenti, durante un interminabile viaggio aereo, nella sala d’aspetto di un treno suburbano, o in mezzo al traffico automobilistico dei pendolari, per avere una visione più chiara: non si fanno prigionieri, da quelle parti, quando si tratta di farcela. Se è necessario mettersi una maschera, conviene imparare il modo migliore per farlo.
Visto il successo in rete, la Cuddy, da brava comunicatrice, ha battuto subito il ferro, e ha pubblicato un volume nel quale approfondisce queste tesi: Il potere emotivo dei gesti (Sperling & Kupfer, pp. 320, euro 18), che nell’edizione originale ha un titolo ben più diretto ed efficace: Presence.
È stato un successo istantaneo. In questi mesi la Cuddy sta girando il mondo come una trottola, presentando le sue teorie a platee d’ogni genere: abbiamo provato a intervistarla e ci è stato risposto, semplicemente, che per il momento non ha tempo. Pazienza.
Noi comunque, per amore di verità, concludiamo la sua storia con una nota: vista la popolarità raggiunta dagli studi che ha effettuato, altri team di ricercatori li hanno sottoposti a verifica.
L’equipe guidata da Eva Ranehill ha testato un campione di casi cinque volte più grande di quello della Cuddy e in una pubblicazione del 2015 sostiene di aver raggiunto risultati assai diversi: secondo lei, non c’è posa che tenga. Il cervello crede solo a ciò che «sente». Del resto è pur vero che la Cuddy parla di «risultati statisticamente significativi» che, tradotto nella lingua dei ricercatori, significa che «in certi casi» si sono osservati dei risultatie in altri no.
Il dibattito è aperto. Ma intanto le idee della Cuddy hanno colpito l’immaginazione collettiva: è importante migliorare la relazione con la nostra materia grigia. Che è pronta ad assecondarci, a patto d’inviarle segnali chiari riguardo alle direzioni nelle quali desideriamo marciare. Stimolante, no? E anche molto postmoderno. Tutto è possibile. Niente ci è precluso. E anche se non lo sapevamo, siamo tutti dei guru mediatici. Almeno di noi stessi.
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