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Federico Rampini per “la Repubblica”
«La birra perfetta per abolire la parola “No” nel vocabolario notturno». Questo slogan della Bud Light, una delle più popolari birre d’America, non lo vedremo più. Denunciata per sessismo in un vortice di polemiche sui social media, la Anheuser-Busch che produce il marchio Budweiser e Bud Light, ha dovuto cancellare la campagna pubblicitaria. Il gioco di parole era pesante.
Qui in America è da tempo in atto una campagna anti-stupro sul “no che vuol dire no, sì che vuol dire sì” al rapporto sessuale. L’alcol è sul banco degli imputati soprattutto nei campus universitari, dove le sbronze degli studenti aumentano la probabilità di violenze.
Ubriaco l’aggressore, ubriaca la vittima, nella semi-incoscienza si attenuano i confini del libero arbitrio? E magari sono proprio le ragazze — questa è la tesi sessista “No Means Yes” avanzata dai commentatori dell’ultradestra come Rush Limbaugh — a cercare l’ubriacatura come alibi per concedersi e poi pentirsi il giorno dopo? Per questo la California ha intitolato una nuova legge “Yes Means Yes”: occorre un sì esplicito, perché il rapporto sessuale sia consenziente.
Di qui l’infortunio Bud Light. Quella birra che «cancella il “no” durante le serate », era un’allusione fin troppo chiara. La sbornia da birra come facilitatore alla caduta di inibizioni, l’alcolismo come anticamera del sesso facile. Un incoraggiamento ai maschi, usate la bevuta perché il resto della notte sia tutto facile.
Da Twitter a BuzzFeed, la protesta contro quell’etichetta incollata alle bottiglie è divampata, costringendo il top management a una precipitosa marcia indietro. «È chiaro — ha ammesso il vicepresidente Alexander Lambrecht in un comunicato — che questo messaggio era fuori luogo. Noi non vogliamo incoraggiare comportamenti irresponsabili». In realtà Bud Light non era nuova a queste imprese. Di recente c’era stato uno scandalo alla festa di San Patrizio, altro evento che negli Stati Uniti fa scorrere fiumi di alcol. In quel caso si incoraggiava a dare “pizzicotti”, molestia che ha per bersaglio soprattutto le ragazze.
Sotto accusa ora c’è un’intera cultura aziendale. Si ricorda il caso di Francine Katz, unica donna ad essere mai ascesa ai vertici della Anheuser-Busch. La chiamarono la Regina della Birra, ma durò poco. Se ne andò facendo un processo (che ha perso) per discriminazione sessista. Oggi una sola donna siede nel consiglio d’amministrazione, circondata da 14 uomini.
Un’altra donna, Lisa Weser, è responsabile delle relazioni esterne, e proprio a lei è toccato rispondere alle migliaia di proteste. Mentre già circolavano voci sulle sue dimissioni, la risposta ufficiale della Weser ha scaricato la colpa dello slogan sessista sull’agenzia pubblicitaria che lo aveva ideato, la Bbdo.
Sessismo e pubblicità vanno spesso a braccetto, nel resto del mondo più ancora che in America. L’Italia è considerata uno dei mercati più arretrati, in quanto a cultura maschilista dei messaggi pubblicitari. In Italia spesso questi «relegano la donna a ruoli gregari, decorativi e ipersessualizzati», sostiene Massimo Guastini, presidente dell’Art Directors Club Italiano (Adci), coordinatore dell’indagine “Come la pubblicità racconta gli italiani”. Ma anche gli Stati Uniti hanno collezionato controversie di recente.
Sempre nelle bevande alcoliche, la vodka Belvedere che appartiene alla multinazionale francese Lvmh nel 2012 lanciò una campagna pubblicitaria in cui si vedeva un uomo abbrancare una donna, mentre lei tentava di divincolarsi.
In tutt’altro settore di business, di recente sul metrò di New York è apparsa una nuova campagna, in favore della chirurgia estetica che interviene sulle dimensioni del seno. Da una parte si vede una ragazza nuda con due piccole arance al posto dei seni, dall’altra, “dopo la cura”, con due voluminosi pompelmi.
birra e tatuaggi ad aintree
BUDWEISER
BIRRA ALLA SPINA
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