RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Roberto D'Agostino per "Vanity Fair"
Farsi possedere dal Diavolo è oggi un segno di grande disponibilità, un modo di stare al mondo all'insegna dell'apertura e della reversibilità del comportamento; un trionfo dell'innocentismo e dello scetticismo, un rendersi pronti a tutte le esperienze, ad un mondo dove tutto può succedere. E forse anche un modo per sottrarsi alla banalità, all'omologazione.
Soprattutto in una città che si autodefinisce Eterna come Roma, che assomiglia a una folata di vento che trasporta Storia, polvere, gioia di vivere, disinvolta ignoranza, cinismo senza limitismo e anche una materia imponderabile, preziosa: la stessa vita. E’ quello che deve aver cogitato Karol Wojtyla. Il 16 ottobre 1978 era salito al soglio pontificio con il nome Giovanni Paolo II. Con la sua figura franca e ironica, i modi pacati e solenni del suo ruolo, le sue orazioni simili a frustate, voce baritonale e dizione biblica, il primo Papa slavo della storia cominciò subito a sbuffare impazienza e insofferenza: gli impegni straripavano sulla sua scrivania.
Durante una tediosa riunione di carattere amministrativo, Karol incontrò un alto prelato polacco. Monsignor Stanislaw Dziwisz era suo sodale collaboratore fin dai tempi in cui il futuro Papa era arcivescovo di Cracovia. La sorpresa fu tanta: “Che ci fai tu qui?”, disse il Papa rivolgendosi al suo connazionale, il quale rispose :”Che ci fai tu qui?”. Rimasero soli a chiacchierare lungamente, ricordando i vecchi tempi in cui nuotavano e sciavano insieme.
Wojtyla disse di esser stato tentato di assumere il nome di Stanislao I, ma il Segretario di Stato e vari cardinali italiani, fecero notare che quel nome non possedeva nulla di “romano, santo e apostolico” e quindi andava cambiato. Si fece sera e quel diavoletto chiamato Roma entrò in azione: i due decisero che era già scoccata l’ora di godersi l’ottobrata capitolina pappandosi una buona pizza.
Indossarono un discretissimo clergyman e saltando ogni protocollo di sicurezza decisero di uscire dal Vaticano. Dziwisz propose una trattoria trasteverina a lui nota. Siccome la questione non è mai stata approfondita, rimane il dubbio se si trattasse di “Santino”, in via S. Francesco a Ripa o “La Piccola Montecarlo”, in via Dandolo, angolo viale Glorioso. Curiosamente la prima era nella strada dove nacque Ennio Morricone (1928), la seconda dove venne alla luce Sergio Leone (1929).
Consumata con abbondanti libagioni di birra la gastro-bisboccia, la zingarata papale si complicò. I due trovarono tutti i varchi chiusi e persino alla carraia di Porta Sant’Anna – nonostante gli sforzi del Dziwisz nell’affermare che il sacerdote accanto a lui era Giovanni Paolo II - le guardie svizzere non riconobbero il neoeletto Pontefice e sbarrarono il passo ai due birbanti (la gendarmeria dello Stato pontificio ha la stessa fama dei carabinieri delle barzellette).
Mortificati, ma non troppo grazie alla quantità di alcol in corpo, i nostri eroi si recarono al Commissariato di Borgo, dove Dziwisz poteva vantare qualche amicizia. Al racconto, l’agente rimase perplesso: ‘’Ma se sei tu il Papa, non hai le chiavi di casa?”. Fu il commissario in persona, che aveva letto i giornali, ad accompagnare i due “fuggitivi” all’ingresso di Porta Sant’Anna testimoniando la vera identità del sacerdote cinquantottenne.
Un “papocchio”, dove lo spirito di Roma si sposa con lo Spirito Santo, che prefigurò lo choc vivacissimo e oltre-oceanico del "fenomeno Wojtyla". Non si era mai visto, in passato, un sovrano cattolico capace di catturare laici e laidi, intellettuali e rivoluzionari, e tenere prigionieri la carta stampata e la comunicazione televisiva, il diavolo e l’acqua santa, senza rovesciare protocolli secolari e tirando avanti come se, niente niente, fosse un mito. Nel senso greco della termine: "mythos" come parola, discorso, narrazione, quindi fonte di emozione e monito di conoscenza, dunque metafora del mondo. Nel bene e nel male.
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