DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Domenico Quirico per “la Stampa”
ucraina bambini portati in salvo
Quando vedo bambini e adolescenti che impugnano le armi nasce in me un senso di pietà, di compassione, e un sordo rancore verso il mondo per il modo in cui si compiono i destini umani. Anche una buona causa non giustifica usare quelle giovani vite, accostarle all'uccidere, loro che sono così inermi di fronte al tempo e alla storia. Scorro foto di ragazzini che a Leopoli si addestrano nei boschi con armi vere. Solo ieri, nei giorni che hanno preceduto l'aggressione russa, impugnavano buffi kalashnikov di legno per mimare con espressioni serissime i gesti dell'appostarsi, del mirare, dello sparare.
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Solo pochi giorni e la finzione è già passata a utilizzare armi vere. Un segno, un altro, del progredire inesorabile della guerra. E poi c'è chi sciaguratamente, per ricordo, fotografa i figli con in mano fucili più grandi di loro. Se la guerra si prolunga il buio inghiottirà un'altra generazione e nel cuore di quella che era, un tempo, l'Europa della pace. È questa una delle eredità più terribili che semina dietro di sé: i ragazzi, i bambini che si abituano alla guerra, la respirano e ne sono intossicati. Che attorno alle armi aggrappano il faticoso percorso della loro condizione umana.
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La guerra non li abbandonerà più, li terrà di riserva, pronti ad arruolarli per quella successiva. Che ci sarà perché si alimenterà di loro, perché non avranno masticato il pane soffice della pace. Si stenta a credere fino a che punto, a quell'età, la guerra aderisca alla carne, le resti incollata, ne sia quasi indistinta. Mi angustia il buio che avvolge queste esistenze impossibili da immaginare.
Provo a tirare qualche filo della memoria, in altri luoghi. Il Congo del confuso assalto al potere del dittatore Mobutu: eserciti che assomigliano a feroci bande di briganti e a compagnie di ventura si inseguono nelle foreste risalgono il grande fiume, si trascinano dietro reclute bambine. Incrocio un gruppo di ribelli dell'ambiguo Kabila, contrabbandiere di diamanti e guerrigliero che ha appena catturato un soldato: laidezza, terrore, sangue che scorre, un odio così indifferente, automatico da sembrare banale.
Convocano un ragazzino, forse 13, 14 anni. Indossa una divisa verde, ma quello che colpisce sono gli stivali di gomma con cui cammina a fatica: perché sono di un numero troppo grande, lo costringono a passi lunghi, goffi per non inciampare. Tiene con le due mani un mitra, lo stringe disperatamente come se fosse la sua cosa più preziosa. E certo lo è. Il prigioniero è a terra, sfigurato dalle botte, dal naso fracassato e dalla bocca da cui cerca di assorbire disperatamente ossigeno esce a fiotti sangue che lo fanno tossire. Il capo dei guerriglieri ridendo ordina al ragazzino di ucciderlo. Lui si concentra.
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Toglie la sicura, prende la mira divaricando le gambe per essere ben saldo. Spara una raffica breve. L'uomo si accerta con un calcio che il prigioniero sia morto. Soddisfatto accarezza il capo della piccola recluta con un gesto assurdamente affettuoso, dolce come se volesse premiarlo per un compito svolto bene. A volte mi chiedo quale è stato il destino di quel ragazzino che ormai, se è ancora vivo, è un uomo adulto. Se è ancora vivo... La risposta più probabile è che abbia continuato a combattere, avvolto dalla guerra che in quei luoghi non è mai finita.
Forse quel mitra con cui ha scoperto come si uccide lo ha sostituito con un altro più moderno, più micidiale. Non credo possa mai aver posseduto oggetti più moderni di quella canna di acciaio e di legno con i suoi lucidi proiettili dai bagliori di argento e d'oro. Chi ha assaggiato la guerra da ragazzo, a cui è stato detto che l'importante è non morire così, per niente, senza portarsi dietro un nemico, che ogni mattino ha imparato a dimenticare se stesso e tornare a ieri, che non può confrontare il suo presente con il sogno di giorni che scorrano nella pace e nell'abbondanza, rischia di non abituarsi a un mondo senza violenza data e subita, morti, dolore.
È una espropriazione originaria di sé, non si appartiene più a nessun mondo. In quanti luoghi abbiamo lasciato, disinteressandoci a guerre che consideravamo secondarie e troppo primitive per noi, che venissero educate queste generazioni della guerra? E quante di queste guerre infinite senza tregue e paci possibili sono la conseguenza di queste generazioni guerriere? Il male, ben più intraprendente del bene, ha la tendenza a diffondersi perché ha il privilegio di essere fascinatore e contagioso.
Dalla guerra non ritorna nessuno, nemmeno i vivi, nemmeno i ragazzi. Chi ha vissuto le rovine, i bombardamenti, imbracciato un fucile anche solo per finta, appartiene alla guerra, la sua anima resta là. Lo abbiamo visto in Siria: i ragazzi della rivoluzione, spesso studenti che avevano lasciato i banchi e le aule per imparare a sparare, hanno scelto poi di arruolarsi nei battaglioni jihadisti, nelle katibe di Al Qaida e poi del califfato. Perché quelli erano i guerrieri senza dubbi, i meglio armati, quelli che sapevano fare la guerra e uccidere i nemici con micidiale efficacia.
È l'attrazione fatale dell'estremo che in guerra funziona sempre. Anche in questa nel centro dell'Europa che è una guerra laica, i miliziani della destra nazionalista che inneggiano al collaborazionista e nazista Bandera, largamente minoritari nella società ucraina quando era in pace, a poco a poco diventeranno i più ammirati, i più ascoltati, quelli con più reclute. In Ucraina per fortuna nessuno ancora arruola bambini. Ma nei due campi la guerra rischia di partorire una generazione fanatica della forza, della violenza, dell'estremo.
Se non la fermiamo subito questo sarebbe il nostro delitto maggiore. Quando finirà aspetteranno che qualcuno spieghi, che qualcuno si avvicini loro e dica: so che hai combattuto, so perché lo hai fatto. Sapere perché sono morti i compagni, perché si è sparato contro il bene, la giustizia, perché le città sono crollate e le donne e i bambini poco più giovani di loro sono stati bombardati. Perché? Nessuno saprà loro rispondere. Bisogna rispondere ora. Impedendo che la guerra li deformi per sempre.
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