DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Giuseppe Baldessarro per “la Repubblica”
Si è tolto la vita impiccandosi. Lo hanno trovato appeso ad un finestrone, morto da diverse ore. Giancarlo Giusti, 48 anni, ex giudice reggino, aveva già tentato di uccidersi. Nel carcere di Opera lo avevano salvato i secondini. Nella sua villetta di Montepaone, dove aveva l’obbligo di dimora, nessuno invece ha avuto la possibilità di soccorrerlo. Viveva da solo, con il peso di una condanna definitiva a quattro anni di reclusione che gli era stata inflitta dalla magistratura milanese e l’angoscia di una nuova inchiesta catanzarese. Un magistrato che, secondo i magistrati lombardi e calabresi era al soldo dei clan della ‘ndrangheta. Uno che, dicono le accuse, si faceva pagare a suon di decine di migliaia di euro oppure con escort e cene in hotel di lusso.
Giusti si è impiccato da semi libero, beneficio che gli era stato concesso proprio per le sue condizioni psicologiche, legate a un primo tentativo di suicidio del settembre del 2012. È stato trovato morto ieri mattina da un parente, allarmato per il fatto che non lo sentiva da alcuni giorni. Sarà l’autopsia a stabilire esattamente data e ora del decesso. A Montepaone vive anche una sorella di Giusti, dalla quale era stato accolto per il periodo in cui era agli arresti domiciliari e dopo che si era separato dalla moglie.
Chiamati a intervenire nella prima mattinata, i carabinieri del Reparto operativo di Catanzaro e della Compagnia di Soverato non hanno potuto che constatare il decesso. Giusti non ha lasciato alcun biglietto per spiegare i motivi del suicidio e, tuttavia, era noto come le inchieste sul suo conto lo avessero letteralmente sconvolto.
Era stato arrestato una prima volta nel 2012 nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Dda di Milano sul clan dei Lampada. L’antimafia aveva scoperto che veniva utilizzato per avere informazioni su eventuali inchieste in corso. Dopo l’arresto venne immediatamente sospeso dalle sue funzioni per decisione del Csm. Da quella prima indagine emersero, in particolare, i presunti rapporti tra Giusti e il boss Giulio Lampada che organizzava per lui festini a base di sesso. Fu proprio durante un colloquio telefonico, intercettato dagli inquirenti che Giusti pronunciò una delle frasi che lo inchiodarono poi al processo: «Tu non hai capito — disse — chi sono io. .. sono una tomba, peggio di. .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice».
Dopo l’arresto e la condanna a quattro anni di reclusione in primo grado, divenuta definitiva la scorsa settimana, Giusti tentò di suicidarsi nel carcere di Opera dove venne salvato miracolosamente. Non si è mai detto colpevole. Durante un’intervista a Klaus Davi ammise solo di «essere stato leggero». Spiegò così il suo rapporto con il boss: «Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Lampada c’era un rapporto affettivo, amicale. Gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un confidente. Ho sbagliato ad accettare donne e cene, ma non gli ho mai concesso nulla in cambio».
E ancora: «La mia è stata una debolezza dovuta al momento terribile che stavo attraversando per la mia separazione. Sono stato stupido. Anche se presi informazioni per mezzo delle forze dell’ordine e di persone vicine ai servizi citate nel processo con nome e cognome, nessuno mi disse mai nulla. È stato un errore molto grave il mio, ma sono stato condannato ingiustamente».
Nel febbraio del 2014 a carico di Giusti fu emessa una nuova ordinanza di custodia cautelare, questa volta su richiesta della Dda di Catanzaro. In questo caso l’accusa a carico di Giusti era quella di avere ricevuto 120mila euro per favorire, nella qualità di giudice del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco della ‘ndrangheta. Fatto che gli era costata l’accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal fatto di avere agevolato una cosca di ‘ndrangheta. Per l’inchiesta che aveva portato al secondo arresto di Giusti si attendeva adesso la sentenza da parte del Tribunale di Catanzaro. Sentenza che non sarà più emessa.
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