![giorgia meloni matteo salvini](/img/patch/01-2025/giorgia-meloni-matteo-salvini-2083891_600_q50.webp)
DAGOREPORT – QUANTO DURERA' LA STRATEGIA DEL SILENZIO DI GIORGIA MELONI? SI PRESENTERÀ IN AULA PER…
"SEI FIGLIA DI UN ERRORE. TI CHIAMAVAMO 'OK', COME OGINO KNAUS, IL METODO ANTICONCEZIONALE CHE NON SEMPRE FUNZIONA" - LA SCRITTRICE LIDIA RAVERA RACCONTA DI QUANDO LA MADRE LE CONFESSÒ CHE LA SUA NASCITA NON ERA VOLUTA. LE DISSE: "CERTO POTEVI ALMENO ESSERE UN MASCHIETTO, VISTO CHE LA FEMMINA CE L’AVEVAMO GIÀ" - LIDIA RAVERA: "È IL 1951. RIPRODURSI È UN OBBLIGO. LA PILLOLA È ANCORA LONTANA, L’ABORTO ERA UN ABOMINIO DA PUTTANE, LA TORTURA CHE SEGUE IL PECCATO..."
Estratto del libro "Volevo essere un uomo" di Lidia Ravera
Adesso lo sai, sei figlia di un errore. Ogino Knaus. Un metodo che non sempre funziona. La pillola è ancora lontana, è lontano il diritto di scegliere. L’aborto è un abominio da puttane, la tortura che segue il peccato. Lo somministra un orco che neppure si lava le mani prima di procedere. Sei fortunata se ne esci viva. È il 1951. Riprodursi è un obbligo, tua madre ha già una figlia. Te lo chiedi per tutta l’infanzia se avrebbe fatto volentieri a meno anche di lei. Non lo saprai mai.
Sulla tua nascita fioriscono le leggende: eri troppo grossa per essere una femmina, eri mal sistemata in quella cavità inospitale, le hai incrinato una vertebra col tuo peso, le hai peggiorato l’umore, tanto che ha voluto traslocare dal villino fuori città, a Rivoli, a un prosaico appartamento al primo piano. Ai piedi della collina, in via Giovanni Lanza. A Torino. La leggenda racconta di un mitico esaurimento nervoso. L’esaurimento nervoso era la spiegazione dei difetti di tua madre. Quello sguardo sempre un po’ deluso, quell’attitudine malmostosa.
lidia ravera - volevo essere un uomo - copertina
Così lontana dall’iconografia del focolare. Con i suoi angeli sempre contenti. Su di te, appena sei sgusciata fuori dal suo corpo, si è posato un sorriso malinconico. Raddoppiavi le sbarre della gabbia, allungavi di una decina d’anni la strada in salita della madre: il tempo della reclusione, quel periodo lunghissimo in cui gli esseri umani dipendono in tutto e per tutto da chi li ha materialmente generati. Non è così nel mondo animale.
Sono più fortunate le scimmie, le gatte, le vacche. Libere quasi subito, libere fino alla prossima nidiata. A non avere la vocazione, la maternità è un inferno. O un esaurimento nervoso. Ma non c’è alternativa. Negli anni cinquanta del secolo scorso le donne sono involucri, contenitori di ovuli e poi di corpi in formazione. Vengono cresciute per procreare. Una funzione corporale, una meccanica divina e tuttavia banale, a cui non c’è modo di sottrarsi. Sono programmate per essere prese da un uomo. Scelte, corteggiate, sposate e quindi correttamente ingravidate.
A vent’anni devono, come certi uccelli, indossare un piumaggio colorato, la festosa livrea dell’accoppiamento. Dura una stagione. Quando finisce, finisce. E le donne tornano alla loro disparità. Funzioni dell’essere altrui, individui minori, inconclusi, che si completano nella coppia e dalla coppia non possono fuggire, pena l’isolamento sociale. Lo stigma, la sconfitta. Una donna non sposata è una donna disgraziata. Se, fuori dal matrimonio, ha partorito un figlio è una puttana. Il figlio di puttana, tuttora ben presente nel sottobosco della conversazione contemporanea, è un bastardo.
Se non vuoi un bastardo, se non digerisci lo stigma sociale, devi essere scelta da un uomo a vent’anni e imparare a tenertelo stretto. A farlo durare. Anche se il teatrino dell’amore è da tempo concluso. Anche se l’uomo cerca altrove relazioni meno scontate del matrimonio. Meno ovvie, meno gratuite, e quindi meno noiose. La legge che consente il divorzio sarà promulgata vent’anni più tardi. Se ne serviranno in tanti, ma gli uomini continueranno a tradire. E a essere perdonati. Mentre le donne “infedeli” verranno comunque lapidate.
In Italia a parole, in altri Paesi letteralmente, sole in una buca, a ricevere pietre fino a quando svengono. E poi muoiono soffocate. Negli anni cinquanta del secolo scorso non appoggiarsi a un uomo non è possibile. Le donne sono creature sbilenche, senza baricentro, azzoppate dal destino, avvelenate dal sacrificio e dal senso di un dovere più grande di loro. Si chinano su quegli infanti prodotti per obbligo con un sorriso di circostanza: sanno che lavoreranno duro a prepararli per la loro vita, fottendosi completamente la propria. Per gli uomini non è così.
Non c’è sacrificio totale di sé. Nessuno glielo chiede. Gli uomini non hanno un corpo che li comanda. Possono avere tutti i figli che vogliono, senza diventare grassi e lenti, senza prelievi di sangue e ospedali, senza doglie e senza parto. Gli uomini possono volere figli o non volerli. È normale. Hanno bisogno di fare sesso, perché sono nati così, con quell’escrescenza egoista che insegue il piacere. I figli sono delle donne. Sono le donne che li creano e li nutrono. Sono le donne che li vogliono, che devono volerli, perché - si sa - sono materne.
Sono le donne che sanguinano tutti i mesi, dai 13 ai 50 anni, per poter figliare. Eppure, all’anagrafe, appena nati, i bambini e le bambine ricevono il cognome dell’uomo. Il cognome del padre. Fatichi dal menarca alla menopausa, al servizio della tua fertilità, e il “frutto del ventre tuo” viene iscritto sotto il nome di un altro. Il titolare di uno spermatozoo fra tanti, quello che ha incontrato il tuo ovulo. Il corpo dell’uomo non sa di essere padre. Non viene toccato, modificato, manomesso, ammalato o guarito. Gli uomini diventano genitori se qualcuno li avverte. Accettano o rifiutano.
Recitano o non recitano la parte. Stanno o se ne vanno. Lo stigma sociale, se gli uomini se ne vanno, è tutto sulle donne che non hanno saputo continuare l’opera della seduzione, al di là del periodo dell’accoppiamento, negli anni cinquanta del secolo scorso. Negli anni cinquanta del secolo scorso, e anche vent’anni dopo, quando hai partorito tu, il sesso del nascituro non si conosce fino a quando, tenendolo per i piedi e facendolo dondolare sul ventre svuotato della madre, la levatrice scopre il nitido taglio che contraddistingue come una ferita le bambine oppure il minuscolo pendaglio di carne rosa che adorna il corpo dei bambini, come una medaglia al valore. L’annuncio desiderato: «Complimenti, è un bel maschietto».
Oppure, di ripiego: «Oh! È una bambina, vabbè… le terrà compagnia quando sarà vecchia». Tua madre: «Ti abbiamo subito chiamata Ok, dalle iniziali di Ogino Knaus, il metodo che usavo per non restare incinta. Sei nata lo stesso e noi ti vogliamo bene come a tua sorella… certo potevi almeno essere un maschietto, visto che la femmina ce l’avevamo già». Non ti ricordi quando ti è stato distrattamente inferto questo colpo. Eri abbastanza grande per capire il discorso, non eri abbastanza grande per riderci sopra.
Vagamente, nella nebbia della smemoratezza che ti ha sempre difesa dalla violenza del passato, si delinea un’immagine: tu e tua madre camminate in un prato. Siete in montagna, a Crissolo, in una casetta affittata, perché tua sorella non sta bene, e quindi non si va al mare. Hai dodici anni, tu. Lei sedici. Adesso è lei che ha «l’esaurimento nervoso». E il mare i nervi li strapazza, mentre la montagna li placa. Le hanno prescritto un’estate curativa, o forse punitiva. Dosi massicce di noia a spegnere i sensi. Tua sorella ha un ragazzo.
Con il ragazzo si teme faccia cose. La parola sesso non viene mai pronunciata ma aleggia sinistra. Una passeggiata in montagna con tua madre fa parte della noia prescritta, ma è anche un’occasione per parlare e tu hai una vera passione per le parole. Ti piace l’intimo palleggio delle confidenze, con tua sorella, mentre ti ascolta ti senti crescere, lieviti verso l’adolescenza. Sogni la vita. Ma se tua sorella sta chiusa in camera a leggere protetta dall’esaurimento nervoso, in mancanza di altri interlocutori, va bene anche tua madre. È nel corso di quella passeggiata la rivelazione? Te l’ha detto a Crissolo, nell’estate del 1963, che dovevi essere un maschio?
O quella è la passeggiata in cui le hai chiesto perché dovevi credere in Dio quando non esisteva alcuna evidenza del suo passaggio sulla terra? «Certo potevi almeno essere un maschietto, visto che la femmina ce l’avevamo già». «Non sono discorsi adatti alla tua età. Ne riparliamo quando sarai più grande». Dunque eri grande abbastanza per scoprire che tua madre non ti voleva, ma non per interrogarti sull’esistenza di Dio. Deciderai da sola che Dio non esiste se non come risposta al bisogno di non aver paura della morte, e vivrai una intera vita lottando contro gli effetti collaterali di questa convinzione. Inquietudine, fretta di vivere, angoscia. Per quanto riguarda l’altra rivelazione, quello è dolore puro: ti sei sempre sentita mancante, sbagliata, inopportuna. Dovevi essere un maschio. Non ci sei riuscita.
DAGOREPORT – QUANTO DURERA' LA STRATEGIA DEL SILENZIO DI GIORGIA MELONI? SI PRESENTERÀ IN AULA PER…
DAGOREPORT - I REPUBBLICANI ANTI-TRUMP HANNO TROVATO IL LORO ALFIERE: JD VANCE - IL VICEPRESIDENTE…
DAGOREPORT – TRUMP HA FRETTA DI CHIUDERE LA GUERRA IN UCRAINA: OGGI HA CHIAMATO PUTIN - IL PIANO…
FLASH! - OGNI GIORNO, UNA TRUMPATA: NON SI SONO ANCORA SPENTE LE POLEMICHE SULL'IDEA DI COMPRARSI…
FLASH! - L'OFFERTA DI 97 MILIARDI DI DOLLARI DI ELON MUSK (CIFRA FOLLE: SOLO LA MANOVRA DEL GOVERNO…
"DELFIN” CURIOSO – DA DOVE ARRIVA LA NOTIZIA CHE LA HOLDING DEI DEL VECCHIO POTREBBERO LIQUIDARE IL…