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NON C’È RELIGIONE SENZA FETICCI – IN TUTTI I CULTI CI SONO “COSE RELIGIOSE” CHE NON SONO OSTACOLI O PERICOLOSE FONTI DI IDOLATRIA, MA DIVENTANO UNA VIA D’ACCESSO AL TRASCENDENTE

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Adriano Favole per “La Lettura - Il Corriere della Sera

 

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«Le religioni sono delle pratiche nelle quali oggetti-segno, immagini, cose naturali e oggetti costruiti da mano umana e talvolta divina svolgono una parte importante, per non dire essenziale, per la possibilità stessa di creare una dimensione trascendente, di renderla presente e pensabile».

 

Nel suo ultimo libro ( Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa , Raffaello Cortina), Ugo Fabietti, ricorrendo a un’amplissima documentazione etnografica e storica, fornisce un’originale mappatura del fenomeno religioso, adottando come filo conduttore la materialità degli oggetti di culto, l’uso di immagini e icone, la dimensione sensoriale, gestuale, corporea (disciplina, digiuno, astinenza, violenza). 

Che si tratti delle statue del presepe che, proprio in questi giorni, molti riporranno negli armadi accanto a oggetti di uso quotidiano dopo averli investiti nel periodo natalizio di un’aura «numinosa» (come avrebbe detto Rudolf Otto); che si tratti di un churinga , l’assicella lignea o litica che contiene i segni-simboli degli itinerari compiuti dagli antenati nel tempo mitico del sogno e che gli anziani aborigeni mostrano agli iniziandi;

 

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e ancora che si tratti delle alasitas, i piccoli oggetti che rappresentano in miniatura case, appezzamenti di terra, automobili, cibo e altri desideri e che i devoti della Vergine di Urkupiña (Bolivia) depongono ai piedi della sua statua in segno di buon auspicio, gli oggetti sono ben più di semplici corredi, paraphernalia del fenomeno religioso. 


L’esteriorità e la materialità delle cose religiose non sono ostacoli e pericolose fonti di idolatria (anche se molto spesso sono percepiti e denunciati come tali dalle autorità del culto), ma vie di accesso al trascendente, situandosi in quella zona grigia tra l’ordinario e l’extraordinario, tra il tapu (ciò che è off limits , irraggiungibile, intoccabile, sacro) e il profano. 


La materia sacra fornisce a Fabietti un filo con cui cucire una grande varietà di religioni e culture, attraversate con il rispetto e la delicatezza di un’analisi che mira a comprendere il fenomeno religioso evitando quelle pericolose derive etnocentriche che dividono le esperienze del trascendente in «vere» e «false», «spirituali» e «idolatre», superstiziose, magiche o autenticamente religiose.

 

Ora di religione Ora di religione

Culture e religioni non sono espressioni di «alterità» radicali, bensì di «scarti», per dirla con François Jullien ( Contro la comparazione. Lo «scarto» e il «tra» , Mimesis), ovvero configurazioni che mescolano differenze e somiglianze. Lo studio della materia sacra non si risolve in un’ideologia materialista né nel tentativo di svelare forme di «falsa coscienza». Si tratta di fornire, scrive Fabietti, un contributo privo di postura ideologica, un «quadro neutrale sul religioso» che apra la possibilità di «una educazione alla coesistenza degli universi religiosi che il nostro tempo vede troppo spesso confliggere».

 
Non esistono religioni prive di oggetti sacri e non esistono religioni e culture aniconiche, che possano cioè fare totalmente a meno delle immagini. Esistono certo religioni ed epoche iconoclaste, così come l’autenticità degli oggetti religiosi (una reliquia, un’immagine autoprodotta della Vergine su un muro o in una stampa fotografica) suscita spesso conflitti e contrasti tra autorità e fedeli o tra aderenti a culti differenti. Uno stesso oggetto sacro poi può far scaturire punti di vista alternativi. 


A Cuzco, l’antica capitale dell’impero Inca, nel corso del XVI secolo, l’ostia — il corpo di Cristo secondo i cristiani — veniva fatta sfilare in processione il giorno del Corpus Domini, una festa inserita nel calendario cristiano nel 1311 da Clemente V. Per gli spagnoli la materia sacra dell’ostia, un oggetto che, è bene ricordarlo, secondo il credo cattolico non rappresenta, ma è la divinità, rendeva visibile nel suo percorso processionale il trionfo della civiltà sulla barbarie, la vittoria politica, culturale e religiosa sul popolo nativo. I nobili inca avevano verso l’ostia un atteggiamento inclusivo e resiliente al tempo stesso.

 

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Inclusivo perché non ebbero difficoltà (come avviene spesso nelle religioni politeiste) ad adottare divinità e immagini sacre cristiane, ma anche resiliente perché il Corpus Domini veniva celebrato lo stesso giorno in cui si teneva in precedenza la festa del solstizio d’estate in onore della divinità solare. I nobili inca decoravano i loro vestiti con il Sole che «rappresentava l’aspetto dell’ostia rotonda racchiusa nell’ostensorio quasi sempre rifinito in modo tale da ricordare i raggi che promanano da qualcosa di simile al Sole (nel caso specifico lo Spirito Santo)». 


Pochi termini hanno avuto un successo simile a quello di «feticcio» nel linguaggio delle scienze e delle religioni europee. Derivata dal portoghese (e a sua volta dal latino) feitiço , cioè «fatto», «fabbricato», «artefatto», la parola «feticcio» è servita a giudicare e svalutare esperienze religiose di società africane, oceaniane, americane, assimilate a religioni popolane e folkloriche (anch’esse piene di «feticci») e considerate troppo invischiate nella materialità degli oggetti e delle immagini a scapito dell’autentica spiritualità. 

In realtà, nessuna religione può fare a meno della materia sacra: la distinzione tra «venerare» e «adorare» le immagini sacre, ovvero tra il considerarle semplici rappresentazioni oppure parte della realtà trascendente (divinità, antenati) è possibile solo a livello teorico-filosofico.

 

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Nella pratica religiosa (di qualunque religione), oggetti e immagini aprono la via al trascendente proprio perché si collocano, in modo ambivalente, tra il qui e l’ altrove , tra la materia e il simbolo, tra l’ordinario e lo straordinario. Da questo punto di vista gli oggetti sono fonti di autorità e sono dotati di capacità di azione ( agency ).

 

Allo stesso modo, il corpo — concepito à la Merleau-Ponty come un «chiasmo», ovvero materia che tuttavia sola ci può far sperimentare ciò che sta oltre — è veicolo dell’esperienza religiosa. 
Attorno a corpi e oggetti «densi», Fabietti ha costruito un testo che, per autorevolezza e ampiezza di riferimenti comparativi, è destinato a divenire un punto di riferimento imprescindibile per un settore di studi come l’antropologia delle religioni.