DAGOREPORT - A RACCONTARLO NON CI SI CREDE. RISULTATO DEL PRIMO GIORNO DI OPS DEL MONTE DEI PASCHI…
Federica Cravero per “La Repubblica”
Notare un cavo di nylon teso ad altezza d’uomo in un bosco fittissimo, dove anche a mezzogiorno è quasi buio, è quasi impossibile. Ma sbatterci contro con la bici lanciata a tutta velocità può avere conseguenze devastanti. Eppure è quello che ha rischiato il ragazzo che, pochi giorni fa, stava scendendo in mountain bike il sentiero “della chiesetta” sul Bric della Maddalena, sulle colline torinesi. Il giovane biker ha denunciato la trappola su Facebook perché altri stessero all’erta.
Ma l’episodio di Torino è solo l’ultimo di una serie che rivela la difficile convivenza tra chi frequenta, a piedi o su due ruote, i percorsi di montagna. Da Novara al Circeo, dal Vesuvio al Conero, le cronache raccolgono una vasta collezione di ostacoli piazzati apposta per far male ai ciclisti: filo spinato o cavi d’acciaio, rami piegati sui sentieri o cocci di vetro lasciati a terra.
«Quando scendi in bici da un sentiero come questo, non puoi tenere lo sguardo appena oltre il manubrio, devi puntarlo qualche metro più avanti. Oppure, se vedi un ostacolo, non fai più in tempo a frenare per evitarlo», spiega Alessandro Barni, 42 anni, parrucchiere di mestiere e biker nel tempo libero, appassionato di downhill.
Dopo il tam tam sui social, ha accettato di ripercorre con Repubblica il sentiero incriminato. Le trappole sono sparite, ma hanno lasciato una scia d’inquietudine e la sensazione di essere bersagli. Bersagli in movimento anche a trenta all’ora, su pendenze da vertigine.
«Quando vai giù, tutti i sensi sono all’erta, il silenzio ti fa avvertire anche i minimi rumori e la concentrazione è massima», racconta mentre si infila casco e protezioni per montare in sella a una bici con sospensioni potentissime e ruote con battistrada spessi così. Nel bosco, spiega, tutto può rappresentare un pericolo: un animale, un albero o un masso caduti sul sentiero, una radice che ha perso la corteccia e diventa scivolosa come una lastra di ghiaccio. Di rami bassi è pieno il bosco, continua, «ma doversi guardare anche dall’uomo è assurdo: e un filo, da lontano, è invisibile».
Eppure non mancano le persone inviperite con questi amanti del pericolo in bicicletta. Escursionisti, prima di tutto, che risalendo lentamente i pendii scoscesi si trovano di fronte all’improvviso bici che sfrecciano come proiettili su sentieri larghi poche decine di centimetri. Proprietari di terreni, in seconda battuta, che nei propri boschi vorrebbero star soli a raccogliere funghi e vivono con fastidio la presenza di estranei.
«È tentato omicidio», tuonano i biker sui social network. «Ma in montagna — ammette Barni — c’è anche un galateo da rispettare. Io cerco sempre di evitare i percorsi tracciati per il trekking, proprio per non rischiare d’incontrare persone a piedi, per non farmi male e non farne a loro. Piuttosto, sulle Alpi ci sono molti bike park attrezzati con impianti di risalita, che permettono di fare più volte in una stessa giornata percorsi progettati apposta per il downhill, con salti e altri ostacoli. Sarà anche per questo che non sono mai caduto in imboscate come quelle degli ultimi giorni».
C’è chi ipotizza che alcune delle insidie, almeno quelle a pochi centimetri da terra, possano essere opera dei bracconieri. Ma altre, senza ombra di dubbio, sono piazzate da nemici dei ciclisti. Non è solo il caso de i cavi ad altezza gola: ci sono anche episodi come quello avvenuto ad aprile a Cagliari, dove la pista ciclabile era stata cosparsa di puntine da disegno.
E c’è chi, saputo delle trappole d’acciaio sulle colline torinesi, trae le logiche conclusioni: «La settimana scorsa — racconta su Facebook Daniele Zacchigna, un altro sportivo piemontese — su quello stesso sentierosono incappato in un letto di cocci di bottiglia. Pensavo fosse colpa di un maleducato, ma temo di essermi sbagliato».
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