marina militare

ECCO COME FANNO I MARINAI: "TORTURATA PER TOGLIERMI UN ANELLO" - LA DENUNCIA DI UNA GIOVANE SOTTOCAPO ALLA SCUOLA DELLA MARINA DI LA MADDALENA: "MI SEMBRAVA DI ESSERE LA PROTAGONISTA DI UN FILM HORROR. MI HANNO IMPEDITO DI ANDARE ALL’OSPEDALE E MI HANNO OPERATA CON ARNESI DA MECCANICO. UNA SOFFERENZA ALLUCINANTE” - INDAGA LA PROCURA DI ROMA

Nicola Pinna per “la Stampa”

 

marina militare

Era un ordine e a lei hanno insegnato a rispettarlo. E anche a costo di soffrire ha preferito non disobbedire. Ma quello che è successo nella scuola sottufficiali della Marina militare di La Maddalena sembra rientrare pienamente nell' ambito dei reati. Perché tutto ciò che è stata costretta a subire una giovane sottocapo, attualmente imbarcata sulla prestigiosa nave scuola Amerigo Vespucci, ha esattamente le caratteristiche di una tortura.

 

«Mi sembrava di essere la protagonista di un film horror - racconta la marinaia in una relazione di servizio che per mesi è rimasta nascosta negli archivi della caserma -. Hanno usato un seghetto affilato, un paio di tronchesine, nastro isolante e fascette da elettricista per rompere l' anello che mi si era incastrato nel dito. Mi hanno impedito di andare in ospedale e mi hanno sottoposto a una sofferenza allucinante».

 

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Tre ore e mezza da incubo ricostruite nella «dichiarazione spontanea» firmata il giorno dopo l' episodio e che non si sa che fine abbia fatto. «Il comando della scuola ha ricevuto una lettera solo dopo che la ragazza è stata trasferita - fanno sapere dalla Marina militare - Abbiamo avviato un' inchiesta interna, appureremo le responsabilità». Nel frattempo, la sottocapo di 28 anni di Bari ha preso servizio sulla Vespucci, è stata interrogata a La Spezia e sul caso ha aperto un fascicolo anche la Procura militare di Roma.

 

A organizzare il tutto (era il 30 di ottobre) è stato un ufficiale, un capitano di corvetta, e all' operazione chirurgica con arnesi da meccanico hanno assistito anche altri militari. Tutti di grado inferiore, che quindi non hanno potuto far nulla per salvare la collega. E a niente è servito il parere dell' ufficiale medico in servizio che aveva ordinato di accompagnare la ragazza in ospedale.

 

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Nel documento finito in procura ci sono nomi, cognomi, gradi, orari precisi e dettagli da brivido. «Tutto è iniziato mentre mi accingevo ad uscire dalla caserma per andare al pronto soccorso: il capitano di corvetta mi ha bloccato e ha ordinato a due colleghi di prendere la cassetta degli attrezzi dalla sua auto. Mi ha fatto andare nel suo ufficio e quando ha tirato fuori il seghetto per me è iniziato il terrore. I primi tentativi di spaccare l' anello mi hanno provocato ferite e dolori allucinanti, temevo di perdere il dito e ho perso le forze e la parola.

 

Al terzo tentativo il mio dito è stato avvolto con nastro isolante per cavi elettrici ma non è bastato. Al quarto il capitano ha ordinato a un maresciallo di impugnare una tronchesina e insieme hanno tentato di strappare l' anello. Il dolore è stato fortissimo».

 

In preda al panico, la ventottenne ha provato a ribellarsi, ma il comandante non le ha dato il permesso di uscire dall' ufficio, diventato in un attimo in una specie di stanza delle torture. «Sono scappata vicino alla finestra, piangevo e chiedevo che la smettessero ma mi hanno preso e mi hanno bloccato sulla stessa sedia. Hanno tirato fuori un' altra tronchesina e hanno cercato di stroncare l' anello sulle due estremità, rischiando però di schiacciare anche il mio dito. Non è bastato, eppure non si sono arresi.

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La mia mano era insanguinata e un collega ha rovesciato una bottiglia d' acqua gelata per tentare di raffreddare il dito, che era già viola, gonfio, pieno di ferite e bolle da ustione. Ma nonostante questo il capitano ha ripreso il seghetto: sono riuscita a fermarlo e allora ha preso un tagliacarte e l' ha infilato tra l' anello e il dito ferito. Dopo il supplizio l' anello si è rotto e me lo hanno strappato tirando con le pinze su due estremità e provocando altre ferite. Poi mi hanno accompagnato in infermeria e messo dei cerotti per chiudere la ferita. Ma la sofferenza non è finita».